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La qualità dell’aria indoor negli ambienti sanitari

La qualità dell’aria indoor all’interno degli ambienti sanitari ha un impatto diretto sui pazienti e sulla sicurezza degli operatori. Facciamo il punto con Gaetano Settimo, dell’Istituto Superiore di Sanità.

il Dott. Gaetano Settimo, è ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità – Dipartimento Ambiente e Salute – Reparto Esposizione a contaminanti in aria, suolo e da stili di vita, oltre che Coordinatore del Gruppo di Studio Nazionale di Inquinamento Indoor dell’Istituto Superiore di Sanità. Autore di numerose pubblicazioni in materia di qualità dell’aria indoor, è referente del Rapporto ISS COVID-19 n. 11/2021, “Indicazioni ad interim per la prevenzione e la gestione degli ambienti indoor in relazione alla trasmissione dell’infezione da virus SARS-CoV-2” del 18 aprile 2021.

La qualità dell’aria indoor negli ambienti sanitari, un tema di cui tutti parlano, ma di cui non si ha ancora reale consapevolezza. Qual è lo stato dell’arte?
Quando parliamo di un tema come la qualità dell’aria indoor, purtroppo spesso dimentichiamo le conoscenze scientifiche acquisite nel corso degli anni. Durante il periodo Covid-19 sicuramente questo aspetto è ritornato al centro dell’attenzione, ma deve essere chiaro che rappresenta da sempre il principale fattore determinante della salute, come evidenziato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in quanto almeno il 50% delle nostre giornate si svolge negli ambienti di lavoro, tra i quali vengono chiaramente compresi anche le strutture sanitarie, gli ambulatori, le RSA, oltre naturalmente agli ospedali, dove l’attività si svolge 365 giorni all’anno, 24h su 24. La qualità dell’aria è ancora più importante se riferita ad ambienti che ospitano persone con fragilità, data l’incidenza delle ICA (infezioni correlate all’assistenza), tuttavia bisogna comprendere che costituisce un problema non solo per i pazienti, ma anche per chi lavora in queste strutture. Purtroppo, molti hanno la convinzione di essere esposti agli agenti inquinanti solamente all’esterno, mentre le evidenze scientifiche dimostrano che la stragrande maggioranza delle esposizioni di natura chimica e biologica avvengono in ambienti chiusi. Spesso si progetta l’innovazione di una struttura sanitaria lavorando molto sugli aspetti tecnologici, considerando i parametri da sorvegliare riguardo la qualità dell’aria indoor nelle sale operatorie e negli ambienti funzionali rispetto alle diverse tipologie di prestazione, dove chi è direttamente esposto ad agenti chimici utilizza tutti i relativi DPI, ma si trascura di far crescere la conoscenza su questo tema a tutti i livelli operativi, dal CUP, alle sale d’aspetto, alle mense, fino ai Global Service che forniscono supporto all’interno della struttura.

La normativa sul tema è ampia e in evoluzione. Qual è l’aspetto più carente, su cui bisogna insistere?
Esiste una moltitudine di norme e direttive, ma noi stiamo cercando di far comprendere che la qualità dell’aria indoor non è un problema solo degli ambienti industriali, o di quegli ambienti dove è richiesto un piano di monitoraggio della qualità dell’aria specifico.  Stiamo insistendo sull’importanza di questo tema soprattutto all’interno di strutture funzionali, poliambulatori, spazi in cui si effettuano prestazioni sanitarie, dove operano professionisti che corrono comunque rischi per la loro salute. Purtroppo, molti datori di lavoro continuano ad utilizzare un approccio completamente sbagliato, che deriva da una formazione improntata a distinguere ciò che è assimilabile ad un rischio industriale dal resto. Questo è uno dei grandi problemi, emerso durante il periodo della pandemia, ovvero che molti degli operatori già presenti all’interno delle strutture sanitarie, i medici di medicina generale o i professionisti esterni che supportano il datore di lavoro non avevano e non hanno tuttora una formazione dedicata al tema della qualità dell’aria indoor. Basta vedere alcuni documenti di valutazione del rischio per capire che non è stato fatto nulla, nonostante la normativa indichi chiaramente quali sono i compiti del datore di lavoro. Oggi si è compreso che è un fattore di forte impatto sulla salute della popolazione e quindi c’è necessità di maggiore conoscenza e di maggiore chiarezza, soprattutto di quali sono gli elementi imprescindibili per attuare un’efficace strategia di prevenzione all’interno delle strutture sanitarie.

Manca quindi la formazione?
Il tema della formazione è fondamentale perché tutti noi dovremmo conoscere i regolamenti e le le norme che in tutti questi anni sono cresciuti in maniera importante sul tema della qualità dell’aria indoor, che non è, perdonate il paragone semplificante, ‘la ciliegina sulla torta’, ma è la farina, ovvero l’ingrediente più importante, cioè il principale determinante della salute, come da definizione OMS, già precedentemente ricordata. È necessario quindi attuare una serie di azioni per ridurre l’esposizione della popolazione o dei lavoratori nelle strutture sanitarie. Come dicevo, molti degli operatori del servizio sanitario nazionale hanno una formazione tipica di genere industriale. Persino Tedros Ghebreyesus,  Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, descrive la situazione attuale come un ‘mondo imperfetto’, sostenendo che dal momento in cui la popolazione per la salvaguardia della propria salute ha come riferimento un medico, che non ha una conoscenza specifica sulla qualità dell’aria indoor perché non compresa nel percorso di studi, manca un tassello fondamentale nella prevenzione e si è già perso in partenza.

Le strutture sanitarie non dovrebbero essere all’avanguardia e molto più consapevoli del rischio?
Ancora una volta dobbiamo distinguere rispetto agli ambienti. All’interno delle strutture sanitarie, accanto agli spazi con rischio alto per natura, le azioni di riduzione dell’esposizione agli agenti atmosferici difficilmente sono attuate come si dovrebbe: aree di degenza, sale d’attesa dei poliambulatori, CUP. Questi spazi hanno della particolarità proprie, come la densità di occupazione in determinate fasce orarie, con un numero importante di persone che possono essere vulnerabili e risentono di questa scarsa attenzione al miglioramento della qualità della vita. Fortunatamente nelle ultime linee guida, pubblicate proprio quest’anno dall’OMS sulla progettazione degli ambienti sanitari, è stato sottolineato che la qualità dell’aria indoor è uno degli elementi che devono essere chiari e devono avere la priorità più alta quando si progetta un edificio, si gestisce o si forma il personale che poi lavorerà all’interno della struttura.

Sulla base delle nuove linee guida dell’OMS, come si può attuare il ‘cambio di passo’?
È necessario attuare una ‘rivoluzione culturale’ che passi dal modello industriale al modello dell’economia della conoscenza, dove siano chiare le caratteristiche di tutti i lavoratori (in Europa circa il 70%) impegnati in ambienti tipicamente indoor. L’elemento della conoscenza e l’aspetto culturale purtroppo nel nostro Paese hanno difficoltà a seguire le evoluzioni delle evidenze scientifiche. Basti pensare che nel corso dei sei anni di laurea non c’è nessuna preparazione su questi temi e che quando tengo lezioni nelle scuole di specializzazione, al secondo o al terzo anno, per la prima volta gli studenti si trovano a parlare del principale determinante della salute. Come possono poi essere essi stessi elementi che promuovono la tutela della salute, se non hanno la consapevolezza del primo fattore di incidenza?

Rivoluzione culturale che deve interessare sia gli operatori sanitari che i progettisti per essere completa. L’impiantistica è adeguata a ridurre il rischio di esposizione a fattori inquinanti?
L’impiantistica è fondamentale sia negli aspetti progettuali che nella manutenzione. La ventilazione è un mezzo che deve essere utilizzato per raggiungere una buona qualità dell’aria, mentre spesso viene considerata solo la prestazione dell’impianto e non vengono valutate le caratteristiche uniche di ogni singolo ambiente, dei lavoratori o dei pazienti. La stragrande maggioranza degli impianti di ventilazione oggi sono progettati con valori che non sono attuali. Si lavora sulla riduzione dei consumi energetici con grande ricorso al ricircolo dell’aria e poca attenzione al grande tema della distribuzione dei flussi, che da sempre devono andare dalla zona più critica verso la zona più sporca e non devono essere diretti verso gli operatori. Vi sono poi impianti operativi da più di 10 o 15 anni, che non hanno mai cambiato i parametri, mentre è possibile che siano cambiate le attività svolte in quell’ambiente, con conseguente variazione di densità di popolazione o di numero di ore di utilizzo, o ancora che siano stati fatti interventi di efficientamento energetico, di cui nessuno tiene conto. Prendiamo ad esempio una struttura come il Policlinico di Milano, suddiviso in ambienti di diagnosi, di cura, di ricerca, di formazione per gli specializzandi e che è operativa senza sosta. L’approccio alla gestione di questi diversi spazi deve essere assolutamente mirato a dimensioni, configurazioni e funzioni specifiche. Quando si elabora il progetto di un nuovo edificio ci sono valori guida di riferimento che dovrebbero essere fin da subito conosciuti e utilizzati, ma troppo spesso gli elementi legati alla qualità dell’aria indoor non sono centrali nella progettazione di una futura struttura sanitaria. Oggi l’approccio è di tipo conservativo, i documenti di valutazione del rischio evidenziano tutte queste anomalie, mostrando chiaramente una mentalità non incentrata sulla prevenzione.

Quali sono gli effetti più evidenti sulla salute di una cattiva qualità dell’aria indoor?
Ci sono miriadi di pubblicazioni scientifiche che li analizzano. Già alla fine degli anni 70 del secolo scorso venne coniato il termine di ‘sindrome dell’edificio malato’, definizione che nasceva proprio nei luoghi di lavoro, a seguito di quella che era stata la prima crisi petrolifera che aveva portato ad una serie di azioni atte a ridurre i consumi. Da quel momento in poi si è dimostrato con evidenze sempre maggiori che la cattiva qualità dell’aria indoor porta una serie di effetti che possono essere di breve termine, per esempio dal più banale mal di testa, alla stanchezza, alla secchezza degli occhi, fino a patologie legate alle forme tumorali. Il programma europeo di lotta contro il cancro indica chiaramene tra le 10 azioni che dovrebbero essere attuate la riduzione delle esposizioni agli agenti atmosferici di rischio.

 

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