(Tratto da “GSA” N 2, febbraio 2011)
Quanto a energia, gli alberghi sono quattro volte più “voraci” della media degli altri edifici. Ecco perché tra le sfide più urgenti c’è quella di ridurne l’impatto sull’ambiente. I modi ci sono…
Tra le sfide del prossimo futuro (ma perché, ormai, non dire del presente?) ce n’è una che non può non stare particolarmente a cuore a chi si occupa di servizi ambientali e, in generale, di servizi espletati all’interno di strutture e di edifici a varia destinazione.
Ci stiamo riferendo alla questione energetica, che si può a buon diritto considerare l’altra faccia del problema ecologico; meno appariscente ma legata a doppio filo con le grandi questioni dell’inquinamento, delle emissioni e, in senso lato, del rispetto ambientale e del fatidico “sviluppo sostenibile”. Il consumo energetico, di fatto, interessa per grandissima parte risorse non rinnovabili, il cui progressivo esaurimento ci porta (a ritmo più o meno rapido, ma senza dubbio inesorabilmente) verso una necessaria ridiscussione delle nostre modalità di approvvigionamento e, di fatto, di vita organizzata. E questo è un dato accertato.
Gli edifici: i veri “mangiatori” di energia
Quello che molti non sanno è che, nel cosiddetto mondo occidentale, sono gli edifici, e non i trasporti, a “divorare” la quantità più imponente di energia.
Alcuni dati fanno riflettere. L’U.S. Green Building Council (www.usgbc.org) stima che ogni anno il 39% dell’impiego di energia sia da riferire agli edifici, così come il 70% di consumo di elettricità (e in Italia i dati non si discostano più di tanto). In tutto il mondo, inoltre, gli edifici (senza distinzione di funzione) consumano milioni di miliardi di litri d’acqua e quasi la metà delle materie prime naturali. In Italia la situazione non è poi molto differente: gli edifici, in fase d’uso (escludendo quindi il processo costruttivo e partendo dal primo giorno di vita effettiva dell’immobile) consumano un terzo dell’energia primaria, con un 40% del consumo finale assorbito dai settori residenziale e terziario. E i consumi energetici incidono per circa l’80% (e comunque mai sotto il 70) sulla totalità degli impatti ambientali generati dall’edificio in tutto il suo ciclo di vita.
Gli alberghi: quattro volte più energivori del comparto civile…
Ora, che cosa sono gli alberghi se non, innanzitutto, edifici? E c’è di più: in ragione della loro complessità, intesa come pluralità di funzioni che si intrecciano indissolubilmente e in parte si integrano, il problema dell’energia è tanto più sentito in strutture come quelle alberghiere e, in generale, dell’ospitalità. Pensiamoci: a differenza della maggior parte degli edifici, che alternano momenti di piena efficienza a momenti di “standby” (l’esempio classico è il centro direzionale, che nelle ore non lavorative si “spegne” per riprendere le sue funzioni il giorno successivo, o anche di molte abitazioni, che hanno varie ore di “riposo energetico” quando gli inquilini non sono in casa), l’albergo è sempre in vita: anche nelle ore notturne e anche, in molti casi soprattutto, nei weekend e nelle festività; è sempre climatizzato, per assicurare il massimo comfort 24 ore su 24, e le sue strutture sono sempre attive, il che determina un dispendio di energia notevole. Insomma, dati alla mano, è stato calcolato dall’ANPA (ex Agenzia Nazionale per la Protezione Ambientale, confluita in APAT) che in un albergo medio il consumo energetico per presenza è quattro volte superiore ai consumi giornalieri per abitante del comparto civile. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se tra i fattori determinanti per il settore ricettivo ci sia anche l’attenzione al risparmio energetico e all’impatto ambientale.
Ecolabel e certificazioni anche per gli alberghi
Va detto, e nemmeno troppo per inciso, che da diversi anni il marchio Ecolabel è stato significativamente allargato dalla Comunità Europea al settore alberghiero, e inoltre sono già allo studio modelli di certificati studiati appunto per attestare la virtuosa gestione ambientale delle strutture turistiche. Un paio d’anni fa fece notizia l’inaugurazione, a Mozzo (nel Bergamasco), del primo hotel in classe A energetica: una strada che sarà sempre più seguita. D’accordo, ma quali sono le caratteristiche di una struttura energeticamente sostenibile? Negli ultimi tempi si va affermando, almeno sulla carta, il modello di architettura ecoefficiente, ossia basato sull’interazione virtuosa fra edificio e ambiente circostante, e alla ricerca del comfort mediante l’impiantistica (condizionatori, ecc.) si sta sostituendo l’utilizzo sempre più razionale delle risorse naturali disponibili nell’ambiente stesso. In parole più semplici, la presa di coscienza degli sprechi energetici causati da costruzioni con un sistema impiantistico pesante e sofisticato per garantire il benessere abitativo al loro interno sta dirigendo l’attenzione di progettisti e costruttori verso sistemi più in armonia con l’ambiente e il contesto.
Verso alberghi passivi?
Il punto di arrivo, anche per gli alberghi, è quindi quello di realizzare una costruzione ecoefficiente, in grado cioè di mantenersi a impatto (quasi) zero sfruttando le caratteristiche dell’ambiente e disperdendo (quindi consumando) il minor quantitativo possibile di energia. Quando si costruisce un edificio con l’obiettivo dell’efficienza energetica, la prima cosa da fare sarà dunque uno studio di contesto, che partirà auspicabilmente dalla disponibilità di fonti di approvvigionamento energetico. Quali fonti potrò utilizzare in quel preciso luogo, nelle varie stagioni, con quel clima e quelle caratteristiche ambientali? Evidentemente sarà sempre auspicabile il ricorso alle energie rinnovabili (solare -termica e fotovoltaica-, geotermica e se possibile eolica o, nel caso delle abitazioni, più propriamente microeolica).
Fra le altre soluzioni da tenere in debita considerazione ci sono i sistemi ad alta efficienza energetica e basso impatto (tra cui ricordiamo caldaie a condensazione/impianti radianti a pavimento, uso di biomassa e co-trigenerazione), e la geotermia, che vedremo.
Si parte dal progetto
È però il caso di partire dalle linee essenziali del progetto. Un ruolo fondamentale è quello giocato dall’orientamento dell’edificio. Il segreto di un buon orientamento è quello di permettere all’edificio di ricavare i maggiori apporti energetici tramite lo sfruttamento, in differenti modi, della luce del sole. Quest’ultima va studiata soprattutto in relazione alla sua provenienza e alla sua inclinazione, che sarà più radente d’inverno e più alta e diretta in estate. Ci sono poi tante altre variabili da tenere presenti, a cominciare dall’ubicazione (quindi, in primo luogo, latitudine e altitudine). In linea generale, esporre il lato maggiore verso sud è un buon inizio, così come ridurre le aperture sul lato nord, che non viene mai irraggiato direttamente.
La forma dell’edificio
Per ciò che concerne gli aspetti morfologici, vale a dire la forma dell’edificio, quattro sono le variabili da prendere in esame: compattezza (che mette in relazione superficie esterna e volume), superficie attiva (vale a dire la parte di rivestimento superficiale energeticamente attivo, in grado cioè di sfruttare l’energia del sole), porosità (ossia quanto l’edificio è ricco di “vuoti”) e snellezza (quanto cioè la costruzione risulta “slanciata”). A seconda dei contesti, tali caratteristiche andranno modulate sapientemente per ottenere l’optimum energetico. Ovviamente occorre considerare anche le caratteristiche geologiche e morfologiche del luogo. Le dotazioni impiantistiche, infine, dovranno funzionare con energie rinnovabili, e non essere eccessivamente pesanti e sofisticate. Il trend adesso, aspettando l’affermazione definitiva della bioedilizia (in cui il settore alberghiero è all’avanguardia), è quello di interagire con lo spazio circostante e l’ambiente naturale.
L’involucro
Si passa poi alle caratteristiche dell’involucro, ossia del guscio esterno dell’edificio, che negli ultimi anni ha visto mutare il suo ruolo in modo radicale: da funzione eminentemente protettiva a ruolo attivo, o meglio interattivo, di filtro e costante dialogo energetico con gli elementi esterni. Tra i fattori da tenere in considerazione: quanto la struttura, e quanto vicina ad altri edifici? Qual è la disposizione delle costruzioni addossate? Si dovranno quindi considerare con attenzione le superfici opache e trasparenti e la loro disposizione, le finestre e le aperture e il loro orientamento. Da dove entra il vento? Che tipo di vento entrerà, e a quale temperatura? Riscalderà o raffredderà? Quanto è permeabile la costruzione? Oggi si tende a realizzare l’isolamento dell’involucro mediante un procedimento a strati: lo strato isolante, che può essere di varia natura, ad esempio lana di roccia o di vetro avere vari spessori (da pochi centimetri fino a mezzo metro) è inserito fra gli elementi laterizi, oppure si procede a una giustapposizione di diversi materiali poco massivi (stratificazione leggera) deputati a differenti funzioni quali isolamento termico e acustico, controllo dei flussi di vapore acqueo e protezione generale della facciata (acqua, aria, ecc.). Resta la possibilità, soprattutto per interventi a posteriori, di realizzare un cappotto termico esterno o interno con materiali isolanti come il polistirene. E attenzione: l’isolamento deve iniziare dal basso, ossia dal punto di contatto fra le zone interrate e i piani abitati.
Vetri e infissi
Tra i punti critici di un edificio ci sono i vetri e gli infissi, che assieme possono causare dispersioni di calore anche del 30%. Un buon infisso è essenziale, e per di più la parte più ad alto rischio termico non è, come comunemente si immagina, l’attacco con la parete o le intercapedini che vi si possono formare, ma il vetro, che trasferisce calore per conduzione o per irraggiamento. Anche un ottimo infisso, così, risulta pressoché inutile senza un vetro di qualità. L’imperativo è di non dotarsi di infissi sofisticati e a tenuta stagna per poi montarci semplici doppi vetri: non serve. La soluzione giusta è un moderno sistema a vetrocamera riempito di gas inerti. Facciamo un rapido calcolo: quante finestre ci sono in un albergo?
I ponti termici
Tutto questo è bene, ma non basta: veniamo allo spinoso problema dei ponti termici: questi ultimi sono i punti di contatto termico fra l’esterno e l’interno e non sono soltanto, come comunemente si immagina, porte e finestre, ma anche pilastri in aggetto, punti di contatto tra solette e balconi, strutture portanti. Per rendersene conto è sufficiente una semplicissima analisi termografica: in corrispondenza dei ponti termici la dispersione del calore sarà maggiore che nel resto dell’involucro. Per questa ragione un edificio ad alta efficienza non può “permettersi” ponti termici, né altri elementi sporgenti. Questo è tanto più vero negli hotel, spesso dotati di tanti balconi. La soluzione è nell’uso di appositi giunti per isolamento termico, che hanno la funzione di dividere le strutture in aggetto dalla soletta, cioè dal piano di costruzione dell’interno, escludendo ogni diretto contatto fra le due parti dell’edificio (interna ed esterna). Poi ci sono i pilastri, per i quali si deve fare un ragionamento analogo perché anch’essi sono punti di contatto con l’esterno. E lo stesso bisogna fare con il terminale delle solette, il cosiddetto filo soletta, che viene arretrato: non si arriva mai a filo con il mattone, cioè non si arriva mai col mattone a contatto con l’esterno, ma si deve isolare il punto di contatto. Il medesimo principio vale insomma per tutti i punti di contatto o gli elementi che sporgono verso l’esterno. Sempre per ciò che riguarda la struttura, attenzione anche all’isolamento tra il primo piano abitato e le parti non riscaldate, un isolamento attuato mediante un “cappotto” integrato nel soffitto delle parti interrate.
Oltre la struttura
A questo punto abbiamo una buona struttura di base. Per quanto riguarda l’alzato, i muri si costruiscono a “cassa vuota” con due strati di mattoni e in mezzo l’isolante. Come laterizio è molto in voga, ormai da diversi anni, il poroton. Quello che più conta è l’isolante, che va scelto dopo aver studiato molto bene le caratteristiche tecniche: in primis le rese in termini di trasmittanza (ossi capacità isolante, ma non bisogna dimenticare anche altre caratteristiche come l’isolamento acustico, che concorre non poco alla creazione di condizioni di benessere: la lana di vetro, ad esempio, è ottima in questo senso. L’isolante può essere inserito all’interno della cassa vuota o posto all’esterno come “cappotto”, con un foglio di polistirene attaccato al muro poi appositamente rasato e verniciato: una soluzione, tuttavia, non per tutti esteticamente accettabile. Ma attenzione: un elemento centrale è quello della continuità dell’isolante, che va garantita in tutti i punti critici: apertura dei vani-finestra, punti di contatto fra involucro e struttura portante, ecc. E anche la copertura (o tetto), punto critico per la possibile formazione di condensa, deve essere ben protetto. Un buon isolante per tetti ed eventuali sottotetti è anche la cellulosa in fiocchi, utilizzabile con profitto anche per la chiusura delle intercapedini o dei fori dovuti a lavori.
I recuperatori di calore
A questo punto hanno preso vita la struttura, il guscio, l’alzato, il cappotto isolante: l’involucro, insomma. Ecco dunque che la struttura, superisolata, deve “respirare”. Come? Esistono degli impianti di aerazione forzata, come i recuperatori di calore di diversi modelli. Semplificando, si tratta di apparecchiature che si installano con un foro nel muro e aspirano l’aria dall’alloggio. Al loro interno c’è un recuperatore di calore a piastre ceramiche: lo scambiatore si trova all’interno dell’edificio termicamente isolato, e deve essere ben accessibile per le operazioni di manutenzione. Questo il principio di funzionamento delle piastre ceramiche: la ceramica si scalda e quando è satura prende l’aria dall’esterno, recupera il calore dell’aria esausta e lo scambia con l’interno. Così si può avere aria pulita ma comunque calda. Tutto questo perché, se da un lato bisogna per forza assicurare lo scambio di calore fra l’interno e l’esterno, dall’altro va considerato che l’espulsione dell’aria viziata comporta importanti sprechi di calore, rischiando di vanificare molti degli accorgimenti adottati per il risparmio energetico.
Per questo si usa il materiale ceramico, in grado di mantenere comunque un’elevata temperatura anche per l’aria in entrata: il recupero, infatti, richiede un impianto di ventilazione meccanica, ed è per questo che gli edifici ad alta efficienza energetica sono in genere provvisti di ventilazione con scambiatori in cui il calore dell’aria in uscita (20°C) viene conferito all’aria fresca in entrata. Per ottenere buoni risultati, gli scambiatori devono avere un rendimento di almeno il 60-75 %. Due sono le fondamentali tipologie di scambiatore attualmente in uso: a vie incrociate (con un rendimento del 60%, ma che possono essere installati a coppie innalzando la resa) e a flusso inverso (con un rendimento che può arrivare ad attestarsi al 95% del calore recuperato). D’altra parte lo scambiatore o recuperatore a piastra non è l’unico sistema di recupero del calore dall’aria viziata: si può impiegare con efficacia anche una pompa di calore aria/aria, che aspira direttamente dall’esterno aria fresca e produce calore che riscalda l’acqua ad uso sanitario. Questi sistemi possono essere anche integrati per una resa ottimale.
Il “cuore pulsante”: la sfida della geotermia
Poi bisogna pensare all’approvvigionamento di energia, quindi all’impiantistica. Il fotovoltaico è ultimamente tanto in voga, ma la produzione di energia non può basarsi solo sui sistemi fotovoltaici. Cuore pulsante di una costruzione energeticamente all’avanguardia è la caldaia. Le caldaie di nuova generazione sono di diverse tipologie, ma quella che va per la maggiore è il tipo “a condensazione”. Che però non è una panacea, né tantomeno l’unica soluzione disponibile per chi costruisce a basso impatto. L’ultima sfida, raccolta con entusiasmo e incredibili risultati da un manipolo di costruttori particolarmente attenti al risparmio energetico, è infatti quella della geotermia. I sistemi geotermici a bassa entalpia (quelli sfruttabili nei singoli edifici, per intenderci) sfruttano il naturale calore del terreno con l’ausilio di speciali pompe, riescono a produrre energia termica per l’acqua calda sanitaria e per il riscaldamento degli edifici. Il sistema a bassa entalpia si basa sul fatto che in qualsiasi luogo della terra, anche a bassa profondità, la temperatura resta costante e così è possibile estrarre calore di inverno e cedere calore d’estate, invertendo il ciclo. Questo scambio viene realizzato attraverso l’impiego di pompe di calore in abbinamento con sonde geotermiche che scendono in profondità nel terreno o sfruttano la presenza di corsi d’acqua, assicurando un alto grado di rendimento sull’arco dell’intera stagione, e con un fabbisogno di energia elettrica contenuto rispetto alle prestazioni.
Simone Finotti