(tratto da “Health & Public Hospital” n.1, Gennaio-marzo 2010)
RIASSUNTO
I cambiamenti nelle tecnologie e nei processi di cura hanno trasformato nuovamente le strutture ospedaliere, che devono ispirarsi ai principi dell’alta intensità di cura. Dall’idea della sanità come prodotto siamo passati ai concetti di processo, di flusso e di presa in carico personalizzata del paziente. La concezione della struttura si ispira ora alla filosofia della adattabilità, della complessità organica e della sostenibilità, secondo i modelli di progetto aperto e di distinzione fra elementi permanenti e sostituibili. In questo quadro si afferma la centralità dello spazio terapeutico, del paziente al centro del progetto, ricorrendo allo studio delle conformazioni spaziali, dei rapporti interno/esterno, delle soft qualities e dell’arte visiva. Alcune innovazioni puntuali e specifiche riguardano poi i servizi principali quali le unità di terapia intensiva, la degenza e i gruppi operatori, sia pur nelle diverse ipotesi nazionali.
TESTO DELLA RELAZIONE
Il modello di ospedale sul quale stiamo riflettendo – l’Alta Intensità di Cura – discende da alcune trasformazioni diagnostiche e terapeutiche e da una profonda innovazione tecnologica, ma è una trasformazione che avviene nel quadro di risorse calanti e di una richiesta di maggior attenzione alla centralità del paziente-cittadino e alla qualità delle cure, secondo le tecniche che altrove si chiamano anche “customer-satisfaction”.
Tutto ciò sta conducendo a strutture specializzate per curare le acuzie, che tuttavia vanno concepite fin dall’inizio ponendo più attenzione alla gestione dei processi di cura secondo principi di programmazione dei flussi, alla razionalizzazione della concezione strutturale e funzionale dell’organismo, alla qualità dello spazio terapeutico, ai rapporti medico-paziente, ad alcuni aspetti specifici di innovazione relativi alle Unità di terapia intensiva e ai reparti di intervento e terapia. Di questi aspetti si occuperà il mio contributo, rilevando fin d’ora che tutti questi aspetti sono congiuntamente intrecciati fra loro.
1. PROCESSI DI CURA: DA PRODOTTO A PROCESSO
Da un modello di cura e di ospedale basati sul concetto di “prodotto” si è passati a un modello basato sul concetto di “processo”, più economico e più efficace. Questo ha fatto superare l’organizzazione degli ospedale per reparti, a favore di un ospedale suddiviso in aree differenziate per intensità di cure e durata della degenza, centrato sul paziente, in cui è fondamentale il concetto di flusso dei pazienti in arrivo, il loro movimento interno, ovvero il loro efflusso, dai livelli a più alta intensità verso reparti intermedi o strutture esterne. Sono principi già messi a punto nell’industria e nei servizi, e diventa centrale la discussione e programmazione del flusso da parte degli operatori sanitari, con sincronie di attività per flussi pianificati e di procedure standard e riconoscibili da tutti gli operatori. Così si attua una dieta dimagrante per spazi, percorsi, scorte e tempi nell’erogazione delle attività sanitarie al paziente, anche con diminuzione delle attese e dei percorsi per pazienti e operatori, diminuzione dei ricoveri e delle le prestazioni sanitarie, insomma diminuzione dei costi, con una migliore qualità del servizio. E’ un ospedale più snello. Non si tratta di aumentare la rapidità delle prestazioni o il volume di attività, ma di individuare la fluidità adeguata per il volume di attività necessario ai pazienti.
Nell’Alta Intensità di Cura non ci si occupa esclusivamente della malattia, ma la presa in carico del paziente deve essere personalizzata, da qui l’esigenza di umanizzazione, da qui l’esigenza di modelli di lavoro multidisciplinari e di medici tutors che prendono in carica i singoli pazienti e di modelli di assistenza (infermieristica) personalizzata
I valori del ricovero per il paziente sono di due tipi: 1) prestazionale, perché si attende che la sua patologia venga trattata e risolta, 2) relazionale, perché si attende che ciò avvenga nel riconoscimento della pienezza della sua figura umana e delle sue aspettative relazionali.
2. LA CONCEZIONE DELLA STRUTTURA
Da decenni ricordiamo che la vita media di un ospedale si aggira sui 50 anni, ma ogni 10 anni il suo modello di funzionamento e la sua tecnologia subiscono modificazioni profonde. Allora è improbabile riuscire a prevedere modelli e tipologie esatte che possano sopravvivere alle esigenze di cambiamento nei decenni. Fino a tempi recenti abbiamo pensato che il modo migliore per progettare un ospedale fosse rispondere al programma funzionale aderendovi il più possibile, specializzando al massimo le strutture, gli spazi e la tecnologia relativa. Io invece credo che non sia più conveniente immaginare un modello concluso e specializzato nelle sue parti e non più cambiabile. E ritengo che, più che progettare un oggetto definito, si debba seguire la filosofia di “progettare il cambiamento”, cioè introdurre alcune invarianti strutturali e degli aspetti di indeterminatezza generalistici nelle scelte fondamentali, che consentano tutti i futuri adattamenti, come più o meno si fa nel progetto urbano di un quartiere, ancora prima di arrivare al progetto architettonico, quando si stabiliscono i lineamenti generali. Senza che per questo l’ospedale debba essere necessariamente brutto, anzi le esigenze di spazio terapeutico ci inducono a lavorare sulla bellezza degli spazi e dell’architettura. Si tratta di fissare alcune leggi generali per ospitare delle funzioni in cambiamento, ma si tratta soprattutto di cambiare modo di pensare al progetto e all’architettura. Se guardiamo bene, infatti, quando noi progettiamo un ospedale esattamente come richiede il suo programma funzionale, ci ispiriamo come filosofia progettuale e come modello teorico di riferimento durante il progetto alla fisica elementare (o meccanica) che traduceva una funzione in una forma esatta. Ma invece dobbiamo intanto ispirarci ai principi della meccanica quantistica, che si basano sulla probabile evoluzione dei modelli, delle forme e degli organismi architettonici e urbani a partire dalla loro evoluzione osservata nella realizzazione ed evoluzione di organismi sanitari del passato e della storia recente. Ma io direi che occorre fare ancora di più e aggiungere a questo approccio quello ancora più recente della complessità organica (che è il sistema per studiare le scienze complesse e anche le scienze umane, cui l’architettura appartiene), nella quale ogni variabile ( i vari servizi e reparti, il sistema dei collegamenti, il sistema delle tecnologie, le tipologie di paziente ecc.) ha una sua natura e sue problematiche e poi si riflette sulle altre variabili; dopodiché occorre stabilire delle tolleranze di crescita, alterazione compenetrazione e feed back, in modo da consentire all’organismo in crescita di sopravvivere e prosperare. Così il nostro compito diviene quello di tradurre in architettura le leggi stesse del cambiamento, trasformando la progettazione di un organismo ospedaliero nel progetto della variabilità e della adattabilità del sistema, sia a scala del singolo contenitore, sia a scala dell’insieme, superando le tecniche compositive classiche dell’organismo architettonico concluso, a favore di un organismo urbano, che renda possibile la complessità, la diversità e le contraddizioni delle singole parti e della loro evoluzione.
Giova allora introdurre alcuni concetti di riferimento, come quello di “progetto aperto”, cioè di un organismo meno funzionalmente specialistico e più adattativo, un organismo che contiene in sé alcune possibilità di crescita e di cambiamento, al momento non prevedibili.
Un altro concetto utile è quello di organismo come insieme interrelato di parti in crescita e cambiamento; ovvero contano di più i rapporti fra le parti che non lo studio delle singole parti, più i flussi che non le attività stabili.
Ancora un altro principio utile è la teoria dell’indeterminatezza, che invita a fissare alcune invarianti strutturali da un lato, e dei fattori di variabilità, dall’altro, per disegnare un edificio che ostacoli il meno possibile il cambiamento. Con questi presupposti possiamo suggerire una tipologia a spina e blocchi. Una Hospital street che innerva tutto il sistema e crea un organismo complesso articolato in strutture indipendenti e collegate. Un sistema di dotazioni impiantistiche e di flussi che innerva tutto l’organismo e che può crescere e moderatamente cambiare. Alcuni blocchi separati e dotati di almeno una direzione o un estremo libero per crescere, blocchi dotati di alcune profondità specifiche e canoniche di corpo di fabbrica e di griglie strutturali regolari e dotati di fonti di illuminazione e aerazione naturale con corti o con sagome cruciformi. Ciascun blocco sia dotato di spazi d’uso standardizzati, neutrali e flessibili, adattabili, sia dotato di vani di servizio o tecnologici e cavedi standardizzati e uniformemente diffusi. Ogni blocco deve possedere un margine di multifunzionalità, una dotazione uniforme di distribuzione orizzontale e verticale e di canalizzazioni impiantistiche. Una certa dotazione di vani o di aree libere accessorie a disposizione che possano consentire i cambiamenti in futuro. Poi ci sono dei limiti, come i 200-250 metri per la Hospital Street o un rapporto ottimale nelle percorrenze fra i collegamenti orizzontali e verticali.
Un altro principio utile è la distinzione fra elementi permanenti (struttura, pareti esterne, spine di collegamenti orizzontali e verticali, centrali e reti impiantistiche principali) e elementi sostituibili: (tramezzi, controsoffitti, derivazioni impiantistiche). E tra gli elementi permanenti alcuni sono requisiti irrinunciabili per l’Alta Intensità di Cura: interpiano tecnico; misure dei corpi di fabbrica e dei passi strutturali adeguati (intorno ai m. 7,00-7,20 almeno in una direzione, non occorrono grandi luci costose); altezze interpiano adeguate (intorno ai m. 4,00); profondità di almeno m. 20,00 di alcuni corpi di fabbrica. forme compatte, o cruciformi e con corti per l’illuminazione; introducibilità di misure antincendio adeguate in termini di vie d’uscita, luoghi sicuri e compartimentazioni; aspetti di igiene (percorsi differenziati), barriere architettoniche.
Un altro principio ancora è la sostenibilità e il risparmio energetico, che coinvolge altre scelte sulle seguenti variabili:
-compattezza del Volume e sua forma per l’efficienza energetica, l’aerazione e illuminazione naturale
-l’orientamento e il paesaggio (sole, ombra, venti, presenza di quinte vegetali, accessibilità, ecc),
-potenzialità dei volumi e delle facciate e dei tetti di contribuire al microclima esterno e interno (ombre, flussi di vento, tetti verdi, doppie facciate, ecc.)
-Possibilità di isolare le strutture e le facciate esistenti, di installare fonti di energia rinnovabile, studio dei materiali per isolare, studio di soluzioni architettoniche e spaziali per gestire il microclima interno, o per assorbire energia, valutazione nelle diverse stagioni, fino alla progressiva eliminazione del condizionamento.
3. LO SPAZIO TERAPEUTICO
Tra i fattori di cambiamento dell’Alta Intensità di Cura c’è sicuramente la nuova nozione di spazio terapeutico (che sostituisce la nozione di umanizzazione), che viene considerato come ausilio alla salute dei pazienti e al più rapido recupero. Ma un ambiente gradevole non riguardo solo i pazienti perché contribuisce a motivare il lavoro del personale.
L’umanizzazione è innanzitutto la comunicazione personale-paziente, la presa in carico del paziente nel suo percorso di cura, la rassicurazione: il paziente informato collabora alla sua guarigione. Ma anche lo spazio e le viste contribuiscono alla sua guarigione. Allora lo spazio terapeutico si ottiene tornando alla centralità del paziente. Ricorrendo a spazi studiati nella loro conformazione e carattere, (atrio, corridoi, spazi di attesa, ecc, insomma tutto il connettivo di accoglienza) e nella loro concatenazione, spazi che indirizzino, che informino, che siano accoglienti e che abbiano un adeguato carattere pubblico o urbano, e poi un carattere via via più riservato a mano a mano che si entra nei reparti, credo che la storia anche qui dovrebbe tornare a insegnarci cosa sono gli spazi rappresentativi degli ingressi, dell’atrio, dei corridoi, delle zone di attesa della comunità sofferente.
Poi bisogna ricorrere alle soft qualities di colori, decorazioni, sfondi percettivi, abbondanza di luce naturale e di viste naturali, presenza di cortili interni e viste verso il paesaggio e la natura, sistemi di luoghi che accrescano la rassicurazione del paziente in termini di celerità del servizio e controllo da parte del personale. Ma anche arredi e complementi di tipo domestico e non strettamente ospedaliero, materiali caldi e non solo tecnologici, qualcosa insomma che faccia sentire “a casa”, o “in città”, o “nel parco”, materiali caldi e naturali, colori studiati in relazione agli stati d’animo dei pazienti (il giallo è stimolante, il rosso è eccitante, mentre l’azzurro e il verde calmano, ma probabilmente è sufficiente utilizzare la gamma di colori disponibili in natura, dove è presente anche una certa variazione). Anche l’Arte visiva contribuisce positivamente allo spazio terapeutico. Ed è provato che l’insieme di queste condizioni, che apparirebbero uno spreco, determinano invece una abbreviazione dei tempi di ricovero dei pazienti.
Una interpretazione interessante dello spazio terapeutico concepisce gli spazi interni dell’ospedale come una trascrizione di spazi urbani e di esperienze del quotidiano all’interno della struttura che contribuisca a far superare quella estraniazione che affligge il paziente, il disagio e la distanza dalla propria vita. Oltre a ispirarsi alle forme della città, avvolte i sistemi di hall e gallerie sono anche direttamente attraversabili dal pubblico e dai cittadini, anche esterni all’ospedale. In questo modo si genera un po’ di diversità, che è la vera ricchezza dello spazio urbano e architettonico-ambientale.
Ancora una volta vorrei richiamare l’attenzione al contributo degli ospedali alla formazione del tessuto urbano e degli spazi della città. Gli ospedali erano fra gli edifici rappresentativi che costituivano l’ossatura dell’articolazione monumentale e urbana delle città e davano un contributo sociale e civile, formavano lo spazio urbano l’esperienza spaziale dei cittadini, oggi sono scatole espulse dalla comunità urbana, si trovano dentro a svincoli di viabilità, al meglio sono isolati in un giardino. Solo in alcuni casi francesi e spagnoli questo problema è stato affrontato, ma credo che si tratti di un dovere morale nei confronti della società che andrebbe analizzato e dibattuto.
4. ALCUNE PROBLEMATICHE FUNZIONALI
Qualche cambiamento interessa la degenza ad Alta Intensità di Cura. I posti letto devono essere flessibili, per passare da un livello di intensità all’altro o da un’unità all’altra, anche per evitare di spostare il paziente.
Una questione riguarda lo spazio letto: se debba essere aperto o chiuso. La tradizione muove dalle corsie aperte, che consentono la visualizzazione diretta dei pazienti, quindi maggiore sicurezza e maggiore efficienza tecnologica e di intervento, breve distanza fra un letto e l’altro per il servizio, minore impiego di superficie nei percorsi; per privacy o schermature ci sono sistemi di armadi mobili. In alcuni paesi si sta diffondendo però la tendenza a separare i letti, con stanze singole, così si evitano al paziente i rumori, l’ansia e il fastidio degli interventi ai pazienti vicini, dei parenti, della luce, ecc., si combatte la trasmissione di infezioni, e servono per i pazienti immunodepressi o infettivi.
Un altro problema aperto è la dimensione ottimale delle unità, la soluzione probabilmente sta nel compromesso con stanze multiletto, forse di 5-6 pazienti, in cui un grado maggiore di privacy può essere raggiunto anche con armadi e mobili. Questo consente una maggiore efficienza, minori costi. Le stanze devono essere tra loro adiacenti, con una buona dotazione spaziale intorno al letto (almeno 20mq per letto, 30 mq se in box), un lavandino tra ogni letto. Le terapia Intensive sono molto stressanti per i pazienti consci e per i parenti, perciò richiedono uno sforzo maggiore per creare condizioni ambientali più accoglienti con visioni di natura e vegetazione, luce naturale, viste all’esterno per non perdere il ritmo giorno-notte,anche orologi e calendari, oggetti d’arte (uno studio americano mostra come la vista su alberi di pazienti post-operati, comporti la dimissione un giorno prima rispetto a altri pazienti che guardano su mura di mattoni).
I letti devono essere posizionati in modo da creare una visione diretta con il posto di guardia.
Una nursing station serve non più di 8-12 pazienti; si immagina che in futuro il Posto di Guardia si spinga di più verso i pazienti, lasciando le attività di osservazione dei monitors a contatto con le attività mediche dello staff, con le sue riunioni e di contatto con i parenti; per più sub-unità devono essere previsti spazi per il personale quali formazione, ricerca, riunioni e organizzazione del personale, e per i parenti.
Occorrono spazi per i parenti, attesa, incontro con wc, tisaneria e TV.
Naturalmente poi esistono declinazioni diverse nel caso di pazienti pediatrici, cardiologici, di UTI neonatali ecc.
Anche nel gruppo operatorio devono aumentare gli spazi dedicati al personale, per la gestione delle terapie, con presenza di uffici e studi, stanze medici e personale, sale riunioni.
Vari modelli continuano a sopravvivere nell’organizzazione del gruppo operatorio, con distribuzione centrale o perimetrale, con disposizione a isole o in batteria. Una sala operatoria generica misura almeno 6×6, ma Per raggiungere flessibilità d’uso per altre specialità (cardiochirurgia, ortopedia, neurochirurgia, ecc) e per allocarvi tutte le apparecchiature, le sale operatorie di oggi devono essere mediamente piuttosto larghe: ml 7 x 8 (circa mq 56), per interventi cardiochirurgici occorre una superficie superiore a 60 mq e anche per interventistica imaging, che sarà sempre più diffusa e richiederà altre trasformazioni delle sale operatorie attuali. Occorre un deposito apparecchiature sempre più grande, perché le attrezzature sono sempre più ingombranti e rischiano di dover rimanere negli spazi utili. C’è dibattito sull’utilità della preparazione paziente, è richiesta ad esempio per la pediatria, ma non per le altre specialità.
Nessun altra area dell’ospedale causa tanta ansietà nei pazienti e nei familiari, per questo occorre lavorare anche qui sullo spazio terapeutico, che rimane uno degli sforzi principali del progetto per l’Alta Intensità di Cura.
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Healthcare facilities, John Wiley & sons, 2000
Capolongo S., Edilizia ospedaliera – approcci metodologici e progettuali, Hoepli 2006
D. Mc Dougall, Operating theatres emerging issues workshop, Adelaide, 21/04/2008
Monk. T, Hospital builders, Wiley Academy 2004
Regli B. e Takala J., The patient process as the basis for the design of am ICU, sta in M.P. Fink, P.M. Suter e W.J. Sibbald, Intensive care medicine in 10 years, Jean Louis Vincent series Editor,
Rossi Prodi F. e Stocchetti A., L’architettura dell’ospedale, Alinea 1990
Fabrizio Rossi Prodi
Architetto, Professore di Progettazione Architettonica e Urbana nell’Università di Firenze