Sempre più spesso i datori di lavoro si vedono recapitare più o meno motivate richieste di danni biologici, materiali ed esistenziali a seguito di presunti comportamenti stressanti, mobbizzanti o quant’altro. Ciò capita molto di frequente nel settore delle pulizie/ servizi integrati/ multiservizi, caratterizzato come sappiamo da un alto valore della manodopera e da lavori spesso usuranti o percepiti come tali.
Attenzione, però: troppo facile avanzare doglianze e richieste, anche da migliaia di euro, senza prendersi la briga di dimostrarle! Il danno da stress non scatta automaticamente, né dà facilmente luogo a obblighi risarcitori a carico della parte datoriale. Lo illustra bene la recente sentenza n. 557/2023 del Tribunale di Cosenza, a data 29 marzo scorso. In questo caso il giudice del lavoro si è trovato di fronte a una salata richiesta risarcitoria (parliamo di oltre 90mila euro per i danni biologici e materiali subiti come diretta conseguenza di una condotta mobbizzante e stressante, comunque non compatibile con lo stato di “sindrome ansioso depressiva reattiva” lamentato dalla ricorrente.
Ebbene, in un’articolata sentenza il giudice ha respinto la richiesta, condannando parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali. Per il tribunale, infatti, la presunta condotta vessatoria viene descritta, nel ricorso introduttivo del giudizio, in modo generico, in contrasto con la necessità, espressa dalla giurisprudenza, di definire con precisione quali sono i comportamenti posti in essere, con intento persecutorio. Altrettanto generica appare la prova del nesso eziologico tra la condotta e il danno alla salute. Infatti, come accade di frequente,la ricorrente non aveva addotto alcuna prova del nesso causale se non quella, ex post, della richiesta di perizia da parte di Ctu: troppo poco e non sufficiente, anche in quanto architettata per “scaricare” un onere probatorio non soddisfatto con altri mezzi.
Si legge infatti: “In relazione alla finalità propria della consulenza tecnica d’ufficio, che è quella di aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negato dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere uri indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati”. E ancora: “In difetto di idonei riscontri documentali, la richiesta consulenza avrebbe avuto la suddetta inammissibile finalità di verificare circostanze non provate”. La perplessità del giudice si estende inoltre alla documentazione medica addotta dalla dipendente, in cui il riferimento all’ambiente lavorativo viene solo riferito dalla paziente al medico, il quale solo in una circostanza ha definito appena “verosimile” tale nesso.
Ma, ovviamente, la semplice “verosimiglianza” non basta. Conclude il giudice cosentino: “In tale situazione non può che trovare applicazione, allora, il noto e costante orientamento della Suprema Corte la quale, in rigorosa coerenza ai principi in materia di onere della prova, più volte ha statuito in tema di risarcimento danni asseritamente cagionati dal datore di lavoro: “Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.”. Nessun automatismo, dunque: ogni danno lamentato deve essere puntualmente dimostrato non solo nella sua entità, ma anche nell’eventuale nesso eziologico che lo lega a presunti comportamenti datoriali.