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Registrazioni clandestine

Negli anni abbiamo imparato che non c’è nulla di più contraddittorio, almeno prima facie,  della disciplina che riguarda le registrazioni “clandestine” e non autorizzate di conversazioni in ambiente di lavoro: in teoria non si potrebbe registrare nulla senza prima aver acquisito il consenso dell’altra parte (diritto alla privacy); in pratica, una volta effettuate, le registrazioni rappresentano prove utilizzabili in giudizio, che fra l’altro possono fare la differenza tra una sentenza di assoluzione o condanna di colleghi o datori di lavoro (diritto alla difesa, che prevale).

L’orientamento della Corte

A ribadirlo, confermando un orientamento consolidato, è la Suprema Corte di Cassazione con la recente Ordinanza n. 24797 del 16 settembre 2024. Il caso, che si potrebbe definire “di scuola”, riguarda una serie di dissapori tra dipendenti riguardo le rispettive posizioni lavorative, sfociato in un contenzioso giudiziale. Tre di questi hanno depositato agli atti un file audio contenente la registrazione di una conversazione intrattenuta da un altro lavoratore con alcuni rappresentanti dell’impresa datrice, operata clandestinamente nel contesto di un confronto organizzato tempo prima dai vertici aziendali.

Il reclamo dei vertici al Garante e l’iter giudiziale

Al che i dirigenti coinvolti nella registrazione proponevano reclamo al Garante per la privacy ex art. 77 Gdpr, chiedendo la non utilizzabilità e la cancellazione/distruzione dei file audio segretamente acquisiti senza consenso. L’Autorità per la protezione dei dati, dal canto suo, respingeva la richiesta con il rilievo che il trattamento era legittimo in quanto funzionale a un procedimento nell’ambito del rapporto lavorativo. Il secondo capitolo della vicenda si consumava dunque nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Il giudizio di merito ribaltava l’illegittimità del provvedimento e l’illiceità delle registrazioni.

Il parere della Cassazione

Non così invece la Cassazione, che richiamando la lettura del Garante dichiarava incensurabile e lecita e immune da censure la condotta dei tre dipendenti. La sentenza ricorda come, in linea generale, l’utilizzo dei dati senza il consenso dell’interessato sia ritenuto lecito quando si tratti di difendere un diritto fondamentale. Spetta poi al giudice di merito stabilire di volta in volta, bilanciando i vari diritti in gioco, quando e in che misura siano ammissibili le prove addotte, componendo le diverse esigenze.

Il diritto che prevale…

Certo è che, in linea di principio, non potrà essere negata la possibilità di difendersi in giudizio ove la controversia attenga a diritti della persona connessi alla dignità umana. Se la posta in gioco è la tutela di un diritto fondamentale, sulla base degli articoli 17 e 21 del Gdpr è possibile che il diritto a difendersi possa prevalere sulla riservatezza dei dati personali. In sostanza, un dipendente può utilizzare conversazioni registrate a insaputa e senza il consenso dei soggetti coinvolti, e tali registrazioni possono legittimamente venire assunte come prove, prevalendo il diritto alla tutela difensiva (che discende dall’art. 24 Cost. e, per i lavoratori, dall’art. 36).

Occhio alle conseguenze…

Attenzione dunque alle conversazioni private sul luogo di lavoro, come anche ai colloqui con i dipendenti o tra colleghi: capita molto più spesso di quanto si immagini di essere registrati, con conseguenze che possono arrivare fino alla soccombenza in giudizio. Il consiglio che ci permettiamo di dare, soprattutto ai datori di lavoro o ai dirigenti, è di non lasciarsi mai andare a esternazioni istintive, non meditate, passibili di interpretazioni discutibili e, ove possibile, svolgere determinati tipi di colloqui in presenza di almeno un testimone.

Link ordinanza Cassazione 24797/24

Link Regolamento privacy

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