Il tema è ricorrente: è valido il licenziamento fondato su dati acquisiti mediante sistemi telematici. E ancora: quali caratteristiche devono avere tali sistemi per far “dormire sonni tranquilli” al datore di lavoro garantendo, al contempo, tutti i diritti dei dipendenti?
Nella sentenza n. 25645 pubblicata il 1 settembre scorso la Cassazione civile ha fissato alcuni “paletti”. Il fatto riguarda un dipendente licenziato nel 2010 per avere, in due diverse occasioni, timbrato utilizzando il badge di una collega di lavoro ritardataria, al fine di occultare il mancato rispetto da parte di quest’ultima dell’orario di lavoro. Una “cortesia” pagata a caro prezzo, vale a dire con il licenziamento.
Qui è iniziato un lungo e tortuoso iter giudiziale, al termine del quale la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta ad annullare il provvedimento. Il motivo rimanda, ancora una volta, a quanto previsto dallo Statuto dei lavoratori (l. 300/1970). La Corte territoriale, incaricata dalla Cassazione di verificare l’autorizzazione del sistema elettronico di verifica delle timbrature, ha accertato che le risultanze derivanti dal controllo automatico a distanza, in quanto non concordate né autorizzate, e finalizzate al controllo della prestazione lavorativa, non erano utilizzabili per il licenziamento del lavoratore.
All’epoca dei fatti, va detto, era in vigore una differente formulazione dell’art. 4 dello Statuto in base alla quale l’utilizzo di tutti gli strumenti di – potenziale – controllo dell’attività lavorativa (inclusi, dunque, quelli automatizzati di rilevazione delle presenze) era ammissibile solo previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali oppure con l’Ispettorato del Lavoro. Tale articolo, si ricorderà, è stato poi riformati (5 anni più tardi) riformato dal cd “Jobs Act” (art. 23 del decreto legislativo n. 151/2015, in vigore dal 24 settembre 2015, in senso più “morbido” per il datore.
Oggi dunque andrebbe diversamente? Non proprio: già nello stesso 2015 il comunicato del Ministero Lavoro del 18 giugno recante “Controlli a distanza: Ministero del Lavoro, nessuna liberalizzazione” aveva specificato come tali strumenti, ritenuti complementari allo svolgimento dell’attività lavorativa, esulino dalle accennate limitazioni solo nel caso in cui gli stessi non subiscano alcuna modifica (ad esempio, con l’inserimento di software di filtraggio o localizzazione) tale da condurre ad un potenziale controllo dell’attività lavorativa.
E ancora: il nuovo articolo 4, peraltro, rafforza e tutela ancor meglio rispetto al passato la posizione del lavoratore, imponendo: che al lavoratore venga data adeguata informazione circa l’esistenza e le modalità d’uso delle apparecchiature di controllo (anche quelle, dunque, installate con l’accordo sindacale o l’autorizzazione della DTL o del Ministero); e, per quanto più specificamente riguarda gli strumenti di lavoro, che venga data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità di effettuazione dei controlli, che, comunque, non potranno mai andare in contrasto con le norme sulla privacy. Vi si prevede inoltre che per l’utilizzo dei dati raccolti a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, senza escludere quelli disciplinari, sia subordinato alla pubblicazione di un regolamento ad hoc. La decisione della Cassazione travolge dunque in radice l’intero provvedimento, condannando il datore al reintegro.
Una precisazione finale è d’obbligo: in ogni caso, anche dopo la “rivisitazione” della legge 300, le norme sul lavoro in Italia non ammettono mai l’indiscriminata verifica dell’attività lavorativa. Attenzione, dunque, ad evitare ogni superficialità in materia.