Ai fini del calcolo del comporto occorre considerare la specifica condizione del lavoratore e la causa delle assenze. Se queste ultime sono imputabili a una condizione degenerativa irreversibile (es. gravi patologie oncologiche o, come nel caso in parola, sclerosi multipla) non bisogna applicare pedissequamente quanto previsto dal Ccnl ma valutare con attenzione il caso particolare.
A tali conclusioni è giunta la Corte d’Appello di Napoli nella sentenza n. 168 del 17 febbraio scorso, che ha confermato il pronunciamento di primo grado reintegrando un lavoratore licenziato. Il caso è molto interessante perché rispecchia da vicino situazioni vissute di frequente dalle imprese di pulizia/ multiservizi/ servizi integrati, attive in un settore ad alto contenuto di manodopera (e, non nascondiamocelo, ad elevato tasso di assenteismo).
Secondo i giudici napoletani il Ccnl -nel prevedere il licenziamento per tutti i lavoratori in caso di superamento dei giorni di comporto- non può essere oggetto di applicazione acritica: in questo modo, infatti, si creerebbe una discriminazione indiretta, tale da determinare un’ingiustificata disparità di trattamento.
L’interpretazione si fonda sul dlgs 216 del 2003 di “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, che all’art. 2 lett. b) parla di discriminazione indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare eta’ o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.
In questo caso, secondo la sentenza, le disposizioni pattizie, intervenendo allo stesso modo su soggetti in condizioni diverse, determinerebbero una situazione discriminatoria. Ragion per cui il dipendente è stato reintegrato per nullità del recesso, a nulla valendo l’osservazione che, così facendo, si rischia di andare verso un comporto di fatto illimitato. Il giudice partenopeo, sempre nella sentenza, offre anche una lettura alternativa, laddove sembra suggerire che sarebbe stato forse più comprensibile e normativamente sostenibile l’iter della sopravvenuta inidoneità (significativo il richiamo all’opportunità di una verifica costante dell’idoneità alla mansione).
Comunque la si metta, pur comprendendo l’importanza della questione e della tutela del lavoro di soggetti in situazione di difficoltà (sacrosanta, beninteso), restano lato impresa alcune domande: siamo sicuri che sia davvero una soluzione sostenibile quella di lasciare in capo ai singoli operatori economici un onere che, forse, andrebbe inquadrato in un problema sociale di più ampio respiro? Possono le imprese sopperire alla mancanza di soluzioni diverse e più coerenti con l’urgenza e la portata sociale, umana ed economica della questione? Le imprese, certo, fanno la loro parte e mettono in atto quanto previsto dalle norme e dal giudicato, ma non sarebbe preferibile per tutti pensare a una soluzione strutturale a livello più ampio?