Interessante pronuncia della Corte di Cassazione (Sez. Civile, sent. n. 32418 del 22/11/23) sulla controversa questione della reperibilità notturna del lavoratore, fra “orario di lavoro” e “riposo”: la questione riguarda alcuni addetti a un servizio antincendio, ma è agevolmente applicabile anche ad altre mansioni e tipologie di servizi, e fra l’altro si attaglia perfettamente anche al lavoro delle imprese di pulizia/ servizi integrati/ multiservizi, che spesso, come sappiamo, si svolge in orari notturni.
Nel caso affrontato dalla Corte, l’organizzazione dei turni prevedeva che le 8 ore notturne fossero trascorse in alloggio di servizio, a disposizione per eventuali interventi. Ora, i dipendenti chiedevano in sede giurisdizionale il pagamento, per le ore notturne, delle maggiorazioni previste per il lavoro straordinario, con detrazione dell’indennità di pernottamento percepita. I giudici di merito, nei due primi gradi di giudizio, optavano per un diniego, in considerazione della qualità di “riposo” delle ore in questione, e della relativa rarità degli interventi effettivamente necessari, che comunque venivano pagati a parte. In altre parole, secondo primo grado e appello il pernottamento non era assimilabile all’orario di lavoro, integrando, invece, una condizione di disagio equamente compensata da un’indennità economica.
Senonché la Cassazione, con la sentenza in parola, ribaltava tale lettura, facendo leva soprattutto sul diritto europeo. Stando a quest’ultimo, in effetti, i periodi di reperibilità del lavoratore, quando comprimono in maniera significativa la facoltà di gestire il tempo libero, costituiscono a tutti gli effetti orario lavorativo. Si legge fra l’altro: “Le nozioni di orario di lavoro e periodo di riposo si escludono a vicenda“. Allo stato attuale del diritto dell’Unione, “le ore di guardia trascorse da un lavoratore nell’ambito delle sue attività svolte per il datore di lavoro devono essere qualificate come “orario di lavoro” o come “periodo di riposo“.
Semplificando all’estremo: o si riposa o si lavora, e in quest’ultimo caso il lavoro va retribuito. Proseguendo nel ragionamento, il discrimine è quello della disponibilità del tempo libero lasciata al lavoratore: se le limitazioni cui è sottoposto durante la reperibilità gli impediscono di gestire liberamente il tempo libero, si ricade nell’orario di lavoro. Ebbene, nel caso affrontato appare chiaro che il semplice fatto di trovarsi a pernottare in azienda ostacola ipso facto una normale gestione del tempo libero, e ciò vale a far ricadere le 8 ore notturne in orario di lavoro a pieno titolo. “L’obbligo di essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro ed il vincolo derivante, dal punto di vista geografico e temporale, dalla necessità di raggiungere il luogo di lavoro entro otto minuti sono di natura tale da limitare in modo oggettivo la possibilità del lavoratore di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali sicché le ore di guardia devono essere considerate come “orario di lavoro”.
Dunque: “Nel corso di un periodo di guardia del genere, il lavoratore, tenuto a permanere sul luogo di lavoro all’immediata disposizione del suo datore di lavoro, deve restare lontano dal suo ambiente familiare e sociale e beneficia di una minore libertà di gestire il tempo in cui non è richiesta la sua attività professionale. Pertanto, l’integralità di siffatto periodo deve essere qualificata come “orario di lavoro”, a prescindere dalle prestazioni di lavoro realmente effettuate dal lavoratore nel corso di suddetto periodo.”
Interessante anche un’altra, incidentale osservazione della Suprema Corte, che rileva: “La modalità di retribuzione dei lavoratori per i periodi di guardia rientra nell’ambito non della direttiva 2003/88, bensì di quello delle disposizioni pertinenti di diritto nazionale. La direttiva non osta all’applicazione di un contratto collettivo di lavoro il quale prenda in considerazione in modo differente i periodi nel corso dei quali sono state realmente effettuate prestazioni di lavoro e quelli durante i quali non è stato realizzato nessun lavoro effettivo.” Si tratta di una considerazione che ribadisce l’ampia autonomia di cui gode l’istituto della contrattazione collettiva di categoria.