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Non basta il software per gestire un appalto genuino

Se la prestazione è organizzata e gestita tramite un software della committente, che impartisce ai lavoratori della cooperativa, previamente identificati con un sistema di riconoscimento vocale cui è associato un “bar code”, i ritmi e le modalità di lavoro, l’appalto non è genuino e si ricade nella fattispecie dell’interposizione illecita di manodopera.

Mezzi propri, rischio di impresa e autonomia organizzativa. Sono le tre caratteristiche che distinguono un appalto genuino da una -più o meno mascherata- interposizione di manodopera. Soprattutto l’ultimo, cioè la questione organizzativa, è finito nel mirino della Corte d’Appello di Venezia – Sezione Lavoro, che con un’articolata sentenza datata 30 marzo 2023 si è pronunciata proprio sulla genuinità di un appalto di servizi.

Il servizio di cui si parla (logistica e gestione magazzino, ma anche ricevimento/ smistamento merci e pulizie) era organizzato e gestito completamente tramite un software di proprietà della committente, che impartiva ai dipendenti dell’impresa (in questo caso una cooperativa), previamente identificati con un sistema di riconoscimento vocale cui è associato un “bar code”, i ritmi e le modalità di lavoro. E ciò avveniva nel dettaglio, minutamente, centinaia di volte al giorno.

Una situazione non certo favorevole all’autonomia organizzativa dell’impresa. E infatti secondo i giudici tale schema di lavoro è da ricondursi non all’appalto genuino, ma all’interposizione illecita di manodopera : “Proprio l’inerenza alla complessiva fase del processo produttivo -osservano fra l’altro i giudici- costituisce l’aspetto saliente del software e, quindi, ne va valutata la rilevanza ai fini di imputare il processo produttivo e, quindi la sua organizzazione all’appaltatore o al committente. Nel caso di specie va evidenziato che nella fase preparatoria il dato relativo alla distribuzione degli ordini appare come variabile indipendente dalla vera e propria organizzazione del servizio: il lavoro era svolto secondo una sequenza predeterminata dal software, a prescindere dall’assegnazione e dall’individuazione del numero degli addetti; in sostanza era indifferente che ciò avvenisse ad opera del responsabile della cooperativa, in quanto alla cooperativa era assegnato il compito di inviare un numero di persone adeguata al tipo di lavoro giornaliero (numero di colli da movimentare) fissato dalla committente.”

E’ solo un passaggio del lungo e articolato impianto argomentativo con cui la Corte arriva a negare la sussistenza di un vero e proprio appalto di servizi, riconducendo lo schema a una fattispecie “spuria” e, in ultima analisi, illegittima. Ma il dato davvero interessante e innovativo della sentenza è che -fino ad ora non era capitato spesso- viene preso in esame un appalto “labour intensive” gestito tramite sistema informatico. Una nuova frontiera dell’evoluzione tecnologica che, sé da un lato senza dubbio aiuta e rende più agevole ed economica l’organizzazione del servizio, dall’altro “spersonalizza” le relazioni anche lavorative e le dinamiche gerarchiche, aprendo il campo a rischi come quelli qui esaminati. 

Sent. Appello Venezia 30 3 23

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