Lo scorso 18 giugno è stata licenziata dall’Aula del Senato la legge delega per la riforma del codice degli appalti e il recepimento delle Direttive europee con il nuovo titolo “Delega al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”, che ora si avvia all’esame della Camera, prima in commissione e poi in Aula (Atto Camera n. 3194, assegnato alla 8ª Commissione permanente Ambiente, territorio e lavori pubblici in sede referente il 23 giugno 2015).
Quali attese per la media impresa del settore?
Cambieranno dunque le regole per gli appalti pubblici. E di conseguenza verrà rivoluzionato, almeno stando alle molte novità suggerite dal testo, l’intero mercato dei servizi. In questo scenario, chi può nutrire qualche speranza che le cose cambino in meglio sono le medie imprese del settore, che a conti fatti, pur rappresentando la grande maggioranza del panorama imprenditoriale italiano del comparto, sono le “grandi escluse” da una partecipazione diretta alle ultime mega-convenzioni centralizzate: si calcola infatti che le sole gare indette da Consip per uffici (FM), scuole e ospedali abbiano sottratto al mercato delle medie imprese circa 7 miliardi di euro. Eppure, numeri alla mano, le imprese italiane che superano i 50 milioni di fatturato sono 25 (di cui appena un terzo risicato, diciamolo pure, possono partecipare agevolmente alle mega-convenzioni), mentre 108 si posizionano tra i 10 e i 50 milioni e ben 944 vanno dal milione ai 10. Oltre 1.050 imprese tra il milione e i 50, dunque, contro una manciata di giganti, che poi sono gli unici ad avere le caratteristiche per aggiudicarsi gare con lotti che, di norma, superano i 100 milioni. Ecco perché la prima cosa che le medie imprese dovrebbero sperare dal recepimento è, finalmente, l’auspicata suddivisione delle grandi convenzioni in lotti “funzionali” e geografici, cioè a forte caratterizzazione territoriale, di valore ridotto, tali da rendere possibile la loro partecipazione diretta. Anche perché, ricordiamolo, non parliamo di imprese aziende artigiane, ma di realtà già ben strutturate che hanno tutta la competenza, l’organizzazione e il know-how per svolgere un servizio di qualità.
La riduzione delle stazioni appaltanti non deve escludere le medie imprese
Da una parte, dunque, è legittima e necessaria la riduzione delle stazioni appaltanti dalle 30mila e passa attualmente presenti alle circa 200 di cui si parla oggi (e non più le 30 che si diceva). Si tratta di una razionalizzazione che le imprese non possono che vedere positivamente, anche perché la polverizzazione delle stazioni appaltanti genera diversi oneri a carico dell’intero sistema. Facciamo un esempio: gli ultimi dati relativi al Mepa hanno registrato nel 2014 oltre 32mila punti ordinanti attivi: insomma, nel panorama italiano della Pa ci sono 32mila uffici abilitati a fare acquisti, ciascuno con i suoi tempi, le sue modalità e le sue prassi. Un po’ troppi, no? Ben venga dunque una razionalizzazione seria in questo senso. Tanto più che secondo un’indagine Censis, condotta per conto di Fise e pubblicata in aprile, fra i problemi che emergono sul tema della concorrenza c’è anche quello delle troppe stazioni appaltanti, oltre alle procedure farraginose. Sull’altro versante, però, occorre anche agire sulla leva dei requisiti di partecipazione, che allo stato attuale non sembrano ancora a misura di media impresa. Lo stesso documento emanato non molto tempo fa da Consip, dal titolo “Piccole e medie imprese tra opportunità e sfide: Consip e altri aggregatori, nuovi canali d’accesso alla domanda pubblica”, dopo una disamina molto ampia che sembra incontrare le esigenze della media impresa di servizi, in cui si ammette che “un livello eccessivo di aggregazione della domanda può risultare negativo per le amministrazioni” e che tra i fattori di allontanamento delle Pmi dal mercato pubblico vanno rilevati “la complessità delle pratiche burocratiche e il cronico ritardo nei pagamenti da parte delle amministrazioni”, sembra poi impaludarsi in un ragionamento fumoso che non indica soluzioni pratiche realmente attuabili che non siano quelle, che già si sanno, del raggruppamento in ATI o consorzi o del mercato elettronico per gli acquisti sottosoglia.
Si punta alla partecipazione in forma diretta
Raggruppamenti? Sottosoglia? Sappiamo che si tratta di prassi in crescita: limitandosi al mercato elettronico, da gennaio a maggio il Mepa è cresciuto del 42% rispetto allo scorso anno, che già registrava un +55% sul 2013. Resta il fatto che per le medie imprese del settore, pur rimanendo opportunità importanti da sfruttare, Mepa e subappalto non possono costituire la regola. Ciò che le medie imprese si augurano, e a buon diritto visto che hanno tutti i numeri e le qualità per farlo, è la partecipazione diretta alle gare pubbliche che costituiscono il loro mercato, visto che, fino a prova contraria, sono già loro in moltissimi casi a svolgere il servizio. Non suona assurdo che un’impresa che fattura 20 o 30 milioni all’anno sia costretta a rientrare nelle gare in forma consorziata in ATI o in subappalto? Eppure è così. Ed è inutile, cosa che avviene già oggi, che i vari legislatori costringano le stazioni appaltanti a suddividere le gare in lotti e, semmai, a dover giustificare la mancata suddivisione, perché il problema non è nella suddivisione o meno, quanto nelle modalità di frammentazione del lotto stesso. Una gara da un miliardo e mezzo suddivisa in lotti da cento e passa milioni risulta di fatto accessibile in forma diretta a una manciata di raggruppamenti e consorzi, limitando così la concorrenza.
Le indicazioni nel testo
Venendo al testo approvato in giugno dal Senato, si può fare un discorso analogo: apparentemente tutelante, in realtà a ben guardare piuttosto preoccupante per la media impresa, è il riconoscimento espresso in relazione alla necessità di garantire l’accesso agli appalti per le PMI introducendo misure premiali per gli appaltatori e i concessionari che coinvolgano i predetti soggetti nelle procedure di gara. Una dicitura che concettualmente conferma la logica del subappalto, premiando gli appaltatori che coinvolgano le imprese più piccole nelle procedure. Di fatto suona come la vidimazione di una situazione già in essere, che non può stare bene alla media impresa. In realtà la leva non dovrebbe essere questa, ma quella che agisca direttamente sull’organizzazione dei lotti. Il rischio da evitare è quello di “avvitarsi” in ragionamenti “filosofici” che poi, all’atto pratico, non producono alcun risultato concreto. E’ per questo che le medie imprese attendono con grande ansia gli applicativi: inutile continuare a parlare di correttezza e trasparenza se all’atto pratico non si fa nulla per tutelare le specificità della media impresa. Specificità che possono passare anche dalla capacità tecnica, dall’adozione di procedure innovative, dalla flessibilità che consente a imprese di medie dimensioni di adattarsi sartorialmente alle necessità della clientela.
Verso requisiti reputazionali
Molto più interessante ciò che si prevede relativamente alla disciplina dei requisiti di capacità economico-finanziaria, tecnica ed organizzativa, con il riconoscimento dell’interesse pubblico ad assicurare il più ampio numero di potenziali partecipanti, completato dalla previsione di un sistema di qualificazione degli operatori professionali basato su criteri di competenza e capacità, con l’ulteriore previsione di criteri reputazionali. Nel testo viene poi esplicitamente prevista la riduzione degli oneri documentali ed economici a carico dei partecipanti. Seguendo sempre lo studio Censis di aprile, ben il 10,6% delle imprese sentite si lamenta della richiesta complessa di requisiti burocratici.
Offerta più vantaggiosa? Sì, ma che sia davvero così!
L’offerta economicamente più vantaggiosa è un altro dei “mantra” che sentiamo recitare da tempo, con esiti a volte contraddittori. Infatti, nonostante le innumerevoli buone intenzioni e i moltissimi proclami, anche in questo caso ben poco si è mosso. Ne è un esempio il discusso allegato “p” sui “metodi di calcolo per l’offerta economicamente più vantaggiosa”, che di fatto premia lo sconto più alto ritornando alla logica del massimo ribasso. Basta una formula, dunque, per mandare all’aria tante parole e tanti buoni propositi. A questo punto i casi sono due: o la nuova normativa si farà carico di modificare lo stato dell’arte delle cose introducendo nuove formule maggiormente premianti per la qualità, o le formule di aggiudicazione verranno ripensate in fase applicativa. A proposito di massimo ribasso, per l’82,3% delle imprese sentite dal Censis “non incentivano la qualità dei servizi e gli investimenti per nuove tecnologie industriali”. Interessanti a questo proposito anche le altre risposte: oltre un’azienda su dieci ritiene che il massimo ribasso, in fondo, “eviti discrezionalità nella scelta del fornitore”, e il 7% circa pensa che “ormai tutti si assestino su una soglia minima”.
Il controllo e il “paradosso del servizio intangibile”
E poi viene il controllo, che è il grande assente in tutti i servizi di pulizia. Non perché non ci sia (in effetti i controlli spesso ci sono e negli ultimi anni sono stati fatti anche parecchi passi avanti in questo senso), ma perché purtroppo entrano nel territorio dell’intangibile. Cerchiamo di spiegarci: se io acquisto beni materiali, si tratta di oggetti che posso verificare agevolmente nella quantità e nella qualità: compro 100 penne a sfera e saprò se sono esattamente 100 o magari 99, 98 o 95. E poi saprò capire subito quali di queste funzionano e quali un po’ meno. Tutto questo, purtroppo, non avviene per un servizio “intangibile” come quello delle pulizie, ad altissimo contenuto di manodopera (85-90%), dove il bene che si acquista è immateriale, perché è in sostanza del lavoro. E da un lavoro non sempre verificabile perché, diciamocelo, che si stia un’ora o 50 minuti in un cantiere, che si passi davvero tre volte in bagno o che lo si faccia una o due, che faccia davvero sempre la pulizia delle vetrate o no e quant’altro, francamente è difficile da verificare. Su questo, purtroppo, è possibile costruire una vera e propria “ingegneria dell’offerta” che arriva a giustificare prezzi anche molto ridotti a fronte, poi, di un servizio svolto non accuratamente o solo parzialmente. Il che si traduce in disagi per tutti, e in alcuni ambienti, pensiamo ad esempio agli ospedali, in cui l’igiene è condizione necessaria per ridurre i rischi di infezioni da degenza. Ma allora si torna daccapo: chi controlla, soprattutto sui grandi numeri, che il lavoro venga svolto davvero con tutti i crismi? E’ un circolo vizioso che ad oggi non ha ancora una via d’uscita, e su cui purtroppo si è costruito un sistema. A questo proposito, le nuove Direttive amplieranno i poteri dell’Anac (Autorità che ha già “incorporato la ex Avcp), prevedendo esplicitamente una serie di funzioni anche dopo l’aggiudicazione. Si prevede inoltre un “rafforzamento della funzione di controllo della stazione appaltante sull’esecuzione delle prestazioni. A proposito di controllo e di mercato “intangibile”, vale la pena di sottolineare come, nell’indagine Censis da noi spesso citata, le stesse imprese di servizi, nel 36% dei casi, lamentino l’esasperata concorrenza solo sul costo del lavoro: un problema avvertito dunque come determinante.
Quando c’è reale concorrenza?
Sempre seguendo la statistica Censis secondo l’85% delle imprese il processo di liberalizzazione del mercato ha subito un notevole rallentamento. Passando al capitolo sul destino delle PMI, l’indagine è altrettanto impietosa e netta nei suoi risultati: per il 37,2% del campione, infatti, le PMI sono spinte fuori dal mercato dalle imprese più grandi, con una progressiva riduzione degli spazi di mercato. In conclusione facciamoci una domanda: quando c’è reale concorrenza? La risposta è molto semplice, ed è derivata direttamente dalle più semplici leggi del mercato: la vera concorrenza c’è quanti più sono i soggetti (qualificati, s’intende, non improvvisati) abilitati e favoriti a partecipare alle gare in forma diretta, mettendo in campo ciascuno le proprie competenze e specificità. Il criterio del favor partecipationis non dovrebbe estendersi anche alla progettazione delle mega-convenzioni che invece, fatta salva la sacrosanta necessità di razionalizzare la spesa pubblica, risultano poi essere strutturate ad excludendum? In fondo la meritocrazia di cui tanto si parla non è anche questa? Quando aziende da 10, 20 o addirittura 50 ed oltre milioni di euro sono costrette a partecipare in cordata o accontentarsi di contratti di subappalto (spesso con percentuali insostenibili), si può parlare di libera concorrenza e di criterio meritocratico?