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Quando l’insulto giustifica il licenziamento

Ci risiamo: il “solito” dipendente “x” ha di nuovo litigato con il capocantiere. La solita incomprensione, ma stavolta sono volati insulti e il superiore non l’ha mandata giù. Oppure: il dipendente “y”, a cui viene richiesto di fare un lavoro, urla insulti a voce alta che ledono l’immagine dell’impresa. Quante volte, in un settore “labour intensive” come quello delle imprese di pulizia/servizi integrati/multiservizi, capitano cose come questa? In molti casi è il pane quotidiano, specie quando c’è già di partenza una certa difficoltà di comprensione dovuta al livello culturale non sempre altissimo e alle difficoltà di una lingua che non tutti padroneggiano. D’ora in poi, però, è il caso di fare attenzione: se fino a pochi giorni fa la giurisprudenza aveva espresso pareri contrastanti su casi come questo, oscillando fra un atteggiamento rigoroso e uno più morbido e giustificatorio, la sentenza 9635 della Cassazione, dell’11 maggio 2016, è destinata a fare scuola in questo senso. Infatti, ribaltando le decisioni dei primi due gradi di giudizio, ha confermato la legittimità di un licenziamento in tronco, per motivi disciplinari (la fattispecie è l’insubordinazione), a carico di un dipendente di un istituto di vigilanza (ma il caso è tranquillamente riportabile anche al caso delle imprese di pulizia) che, durante il lavoro, si era rivolto ai superiori gerarchici con espressioni ingiuriose. In particolare, si evince dalla sentenza di appello, intorno alle 21.45, nel commentare un Ordine di Servizio, il dipendente ad alta voce ed alla presenza di numerosi colleghi affermava che “… l’Azienda era composta, dal basso in alto da uomini di m. ….”. Atteggiamento che il dipendente assumeva anche al termine del servizio (ore 04.55 circa) allorché sempre nei confronti [del superiore], alla presenza dell’addetto di turno presente in Centrale operativa, asseriva che il superiore era una persona inadatta al servizio di coordinatore, che dei suoi ordini non gliene fregava un c. …, che detto coordinatore era un cesso di m…, che non doveva rompergli i c…, ecc. ecc.”

Un aspetto da non sottovalutare è che il dipendente non si era poi rifiutato di adempiere al proprio compito: questo era stato il motivo principale per cui il primo grado e l’appello avevano condannato l’impresa alla reintegra: in fondo, poi, il lavoro era stato fatto…
Ciò, tuttavia, per la Cassazione non è sufficiente: anche se poi, alla fine, il lavoratore svolge il compito a lui assegnato, per i giudici di Cassazione la nozione di insubordinazione “non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale (giurisprudenza consolidata fin da Cass. n. 5804 del 1987), deve rilevarsi che la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa in ultima analisi sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi e tale autorevolezza non può non risentire un pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli.”. Insomma, v’è insubordinazione laddove la condotta del dipendente nei confronti del superiore ne mini evidentemente la credibilità, pregiudicando il corretto funzionamento dell’organizzazione aziendale.

Una terza ragione che rende la sentenza molto interessante è che a nulla è valso il fare riferimento alla Contrattazione collettiva del settore, la quale prevede come ipotesi di giusta causa di recesso soltanto condotte non solo verbalmente, ma anche fisicamente aggressive: la “giusta causa” di licenziamento è nozione legale e il giudice non può ritenersi vincolato dalle previsioni dettate al riguardo dal contratto collettivo, potendo e dovendo ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, e potendo e dovendo specularmente escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.” Occhi e orecchie aperte, dunque: su casi come questo non si scherza, il licenziamento è legittimo.

Sentenza Cassazione 9635-16

Link Sentenza Appello Potenza

 

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