Tra i motivi di licenziamento che lasciano “tranquilli” i datori c’è, come è noto, il superamento del periodo di comporto, ossia il tempo massimo durante il quale, in caso di assenza per malattia o per infortunio, il lavoratore ha diritto a conservare il posto di lavoro. Si tratta infatti di una motivazione di carattere “oggettivo” e apparentemente indiscutibile, nel senso che è frutto di un semplice calcolo numerico e non lascia adito, almeno in teoria, ad interpretazioni.
La pratica, però, è tutt’altra cosa. Recenti pronunciamenti di diversi tribunali sparsi un po’ in tutta Italia, infatti, si sono espressi in senso opposto decretando l’illegittimità di recessi in caso di lavoratori diversamente abili o che si trovino in condizioni di salute molto serie. Si veda ad esempio la recentissima sentenza n. 20012/19 (11 agosto) del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, sezione Lavoro e Previdenza. Il giudice, nelle sue funzioni di giudice del lavoro, ha in questo caso contestato al datore la mancata comunicazione dell’approssimarsi della scadenza del comporto, considerata discriminante e attuata in violazione dei principi di buona fede e correttezza in considerazione delle gravi condizioni di salute del lavoratore assente.
“Discriminazione” è il concetto-chiave anche di un’altra sentenza “pilota” in questo senso, stavolta risalente al 2016, con cui il Tribunale di Milano (2857/2016) ha accolto la tesi difensiva del lavoratore, annullando il recesso datoriale, ritenendo dirimente il fatto che “il licenziamento non costituisce una discriminazione diretta, ma una discriminazione indiretta”, giacché l’esercizio del potere datoriale di recesso costituirebbe applicazione di “una disposizione apparentemente neutra (la normativa sul comporto) che però mette il lavoratore (portatore in questo caso di un handicap) in una posizione di particolare svantaggio”. Questo appunto nella sentenza citata del giudice milanese, che prosegue affermando che sarebbe “onere della parte datoriale provare che l’intero periodo di assenza era assolutamente indipendente dalla patologia invalidante”.
Il licenziamento del lavoratore diversamente abile, dunque, sarebbe discriminatorio. Di tutt’altro avviso, occorre dirlo, sono altri Tribunali, fra cui quello di Parma, che con sentenza 18/8/2018 ha affermato che non costituisce atto discriminatorio applicare anche al dipendente disabile il medesimo periodo di comporto che si applica a tutti i lavoratori: “Nel rapporto di lavoro del personale con disabilità è esclusa la sussistenza di una discriminazione, perché nessuna norma di legge prevede, nei confronti dei lavoratori con disabilità, un periodo di comporto più ampio”.
Ora, è evidente che si tratta, come spesso accade, di contemperare due diritti, entrambi molto importanti: quello sacrosanto del lavoratore di assentarsi per motivi di salute conservando la certezza del posto, ma anche quello, altrettanto significativo, del datore di essere certo se potersi o no avvalere, in futuro, della prestazione lavorativa del dipendente. E’ proprio in questo difficile crinale che si rivela decisiva la facoltà interpretativa del giudice del lavoro. In ogni caso, raccomandiamo la massima attenzione, soprattutto in casi particolari, in cui il recesso può essere ritenuto discriminatorio.
Link sentenza S. Maria Capua Vetere
Link Bollettino Adapt Novembre 2019