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Licenziamento nullo se ritorsivo

Torniamo a parlare di un tema già trattato in passato, con analoghe riflessioni. Anche per sottolineare la realtà di una giurisprudenza -anche di legittimità- sempre più attenta alla sostanza che alla forma.

L’Ordinanza Cassazione 18547/24

Entriamo subito nell’argomento, precisando che si tratta di un licenziamento di carattere sostanzialmente ritorsivo seppur ammantato di (pretestuose) ragioni di riorganizzazione aziendale. Orbene, sul caso si è pronunciata la Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 18547 dell’8 luglio scorso, dimostrando appunto un approccio sostanzialistico.

La vicenda

Il fatto riguarda un lavoratore della distribuzione organizzata (ma la questione può agevolmente essere riferita anche al settore delle pulizie/ servizi integrati/ multiservizi) licenziato per giustificato motivo oggettivo dovuto a una presunta crisi aziendale. Il punto è che prima del recesso il dipendente aveva rifiutato la proposta aziendale (giustificata come parte di una strategia di riduzione dei costi) di trasformazione del contratto da tempo pieno a part-time, cosa che avviene piuttosto di frequente anche nel nostro settore.

L’impugnazione del provvedimento

Attenzione però, perché in questo caso, dopo il rifiuto per ragioni personali, il datore avviava un iter disciplinare nei riguardi del dipendente, senza però alcun concreto esito, salvo la successiva irrogazione del recesso per questioni di riorganizzazione aziendale. Al che il dipendente -adducendo la motivazione ritorsiva del provvedimento (in sostanza motivato dal rifiuto del part-time)- impugnava il licenziamento, trovando accoglimento già in sede di merito.

Gli elementi “sintomatici” del recesso ritorsivo

Addirittura la corte d’Appello si spingeva ad individuare gli elementi “sintomatici” del licenziamento di carattere ritorsivo, espressamente: la vicinanza temporale tra il rifiuto di accettare un contratto part-time e il suo licenziamento, e  l’iniziativa disciplinare avviata dal datore di lavoro in seguito a tale rifiuto. D’altra parte l’articolo 8, comma 1, del dlgs 81/15 (jobs act) prevede espressamente che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

Attenzione agli “istinti” vendicativi…

Un orientamento confermato anche in sede di legittimità: infatti né si giustificava l’effettiva crisi aziendale, non supportata da adeguata documentazione e dati, né -altro aspetto su cui ci siamo soffermati spesso in questa sede- è stata dimostrata l’impossibilità di “repechage”. Anche su quest’ultimo aspetto occorre fare parecchia attenzione, perché prima del licenziamento (che dovrà essere l’extrema ratio) occorre anche dimostrare di aver vagliato ogni possibilità alternativa funzionale alla conservazione del posto. 

Una crisi… mascherata?

Gli Ermellini, fra l’altro, hanno chiarito -confermando l’Appello- che il licenziamento era stato dichiarato ritorsivo non tanto perché legato al rifiuto del part-time, quanto perché motivato da inesistenti ragioni aziendali, ma da un (malcelato) intento vendicativo per il legittimo rifiuto del lavoratore. In effetti, emerge dall’Ordinanza, la stessa insussistenza del motivo oggettivo getta una luce sulla “esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento”, che non trovava fondate ragioni altrove.

Il recesso è nullo, lo dice anche la Consulta

I giudici indugiano anche sulla nullità del recesso: a fugare ogni dubbio è recentemente intervenuta la Corte Costituzionale proprio di recente (22/24) con l’estensione della reintegra a tutti i casi di nullità del licenziamento, con la dichiarazione di incostituzionalità dell’avverbio “espressamente”, pertanto espunto dal testo del decreto legislativo 81/15.

Reintegra e risarcimento

Si legge ancora: “Al licenziamento ritorsivo in quanto riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria stabilita dall’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.” La Cassazione non ha dunque potuto che ribadire la reintegra del dipendente nel suo posto di lavoro e il risarcimento del danno pari alle retribuzioni non percepite dal giorno del licenziamento fino alla reintegrazione. Attenzione, dunque, a provvedimenti presi affrettatamente e soprattutto sulla scia di un sentimento “vendicativo”: decisamente preferibile agire con equità, serenità ed equilibrio.

Link C. Cassazione Ord. 18547 dell’8 luglio 2024

Sent. Corte Cost. 22/2024

 

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