Ritorniamo su un argomento che negli ultimi anni sta tenendo banco, e non poco, nelle aule dei tribunali in diverse varianti: il rilievo, disciplinare prima e penale poi, delle immagini e video diffusi sui social o, come in questo caso, sui gruppi di messaggistica.
L’articolazione dei fatti
Il caso preso in esame dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 5334 del 4 marzo 2025 è molto particolare, e merita un’attenzione dettagliata perché sono diversi gli “attori in gioco”, ciascuno -come vedremo- con un proprio destino processuale: una dipendente (parliamo di una catena di negozi, ma il fatto –mutatis mutandis– è facilmente applicabile anche al settore delle pulizie/multiservizi/servizi integrati) durante l’orario di lavoro filmava una cliente “corpulenta” (ma potrebbe essere benissimo -nel caso delle imprese di pulizia- personale alle dipendenze della committenza, clienti dell’azienda committente, terzi, ecc.) con evidente intento denigratorio (body shaming). In seguito diffondeva il video su una chat whatsapp privata, riservata ai dipendenti del punto vendita (nel nostro settore, immaginiamo, del cantiere). Un’azione senza dubbio poco corretta eticamente e deontologicamente. Ma cosa ne penseranno i giudici?
La dipendente impugna il provvedimento
La questione si scatena quando un collega membro del gruppo-chat “fa la spia” e gira il video ai superiori responsabili. Questi ultimi, senza rifletterci troppo, notificano il licenziamento alla dipendente autrice del video per “aver leso il prestigio dell’azienda”. A questo punto la lavoratrice licenziata impugna il recesso irrogatole a seguito di violazione della corrispondenza privata, e contrattacca accusando il collega di tale violazione, effettuata in spregio al dettato costituzionale (art. 15).
L’opinione della Suprema Corte
Ebbene, la Suprema Corte, dopo un non breve iter processuale, dà ragione alla dipendente cassando di fatto il provvedimento espulsivo proprio sulla base del principio della segretezza della corrispondenza. Premesso che la diffusione di un video in una chat ristretta rappresenta fattispecie assimilabile a “corrispondenza privata”, gli Ermellini concludono che quest’ultima, inclusi i video inviati ai colleghi in un gruppo chiuso whatsapp (ambiente virtuale ad accesso limitato e protetto, specifica la Corte), gode della tutela della libertà e riservatezza delle comunicazioni prevista dall’articolo 15 della Costituzione e non può dunque essere utilizzata a fini disciplinari contro il dipendente stesso.
Illegittimo “fare la spia”
Ad essere illegittimo, al contrario, è l’inoltro al datore di lavoro dei contenuti da parte di uno dei partecipanti, poiché tale condotta integra violazione dell’obbligo di segretezza. Dunque è il collega “spione”, e non la dipendente autrice del video, ad essere eventualmente perseguibile, poiché le notizie, le immagini, i video ed altri contenuti, condivisi con telefono personale a determinate persone nell’intento di mantenerle segrete, godono a tutti gli effetti delle tutele costituzionali.