Ci risiamo: il dipendente si assenta dal lavoro, produce regolare certificato del medico curante (indotto in errore dal lavoratore per mero interesse personale, connivente o quantomeno molto “morbido”), salvo poi uscire di casa riprendendo le regolari attività della vita privata (e non per ottemperare a prescrizioni mediche), senza farsi nemmeno trovare alla visita dell’Inps.
Insomma, si finge malato. Nel settore delle pulizie/ servizi integrati/ multiservizi cose come questa ne accadono sovente, tanto che il nodo dell’assenteismo è tra i più combattuti ad ogni tornata di rinnovo contrattuale (anche quella attuale). E accade anche che il dipendente “infedele” venga sorpreso a svolgere altri lavori, in forma perlopiù sommersa, allo scopo di “arrotondare” le entrate. Anche perché vi sono condizioni di salute non sempre verificabili con accertamenti strumentali (malesseri generici e diffusi o, come nel caso in esame, depressione), e molto spesso il dipendente “gioca” sull’ambiguità del malessere, letteralmente bluffando sul proprio stato di salute. Ebbene, si tratta di un comportamento che, secondo la Cassazione, può dare luogo a un licenziamento in tronco, senza nemmeno preavviso.
Infatti la Suprema Corte, con la recente sentenza numero 10154 del 21 aprile scorso, non lascia alcun dubbio: meglio, paradossalmente, un’assenza ingiustificata piuttosto che una bugia scoperta, che unita al mancato rispetto delle fasce orarie di reperibilità dà luogo a un licenziamento per giusta causa. E a nulla vale l’aver presentato il certificato medico (spesso, diciamolo, rilasciato dopo diagnosi telefonica alquanto generica e superficiale): infatti quando quest’ultimo (come nel caso in esame) contrasti con quello del medico fiscale, a decidere è il medico Inps, cui spetta l’ultima parola. Se poi parte una causa per l’impugnazione del licenziamento, l’ultima parola va alla Ctu (Consulenza Tecnica d’Ufficio) medico-legale. Nel caso di specie, dalla Ctu è emerso che il dipendente aveva indotto in errore il medico curante con una falsa rappresentazione del proprio stato di salute (depressione); pertanto, come accertato dalla consulenza psichiatrica, il certificato rilasciato dal medico curante non era giustificato dall’effettivo stato di salute del dipendente, che era invece in condizione di tornare a lavorare.
Link sentenza Cassazione 1054 21 aprile 2017