Importante pronunciamento della Corte costituzionale in merito alla validità delle norme sulle cd. “tutele crescenti” in base all’anzianità di servizio previste dalla riforma del lavoro del 2015 (cd. “Jobs act”). In particolare, con sentenza 7/2024 del 22 gennaio, pubblicata in GU il giorno 24, la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, commi 1 e 10 del decreto legislativo 23/2015.
La -spinosa- questione di legittimità costituzionale era stata sollevata nell’ambito del giudizio di impugnazione di un licenziamento collettivo, da parte di una lavoratrice assunta e licenziata dopo il 6 marzo 2015 -quindi nel regime del dlgs n. 23/2015 -, censurato per violazione della procedura e per la non corretta applicazione dei criteri di scelta.
Il dubbio di incostituzionalità riguarda la disciplina, meramente indennitaria, delle conseguenze sanzionatorie per alcuni dei dipendenti licenziati: in concreto, nell’ambito del medesimo licenziamento collettivo dichiarato illegittimo si trovavano coinvolti dipendenti poi reintegrati (perché assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act), e dipendenti assunti dopo cui spettava la sola indennità.
Nel dettaglio, l’abbandono nell’ipotesi di specie della tutela reintegratoria per i dipendenti assunti a partire dal 7 marzo 2015 è stato considerato dal giudice a quo (nella fattispecie la Corte d’Appello di Napoli – ord. 16/4/23) oggetto di possibili censure di:
1) eccesso di delega del D. Lgs. n. 23 del 2015);
2) ingiustificata differenza di trattamento sanzionatorio che ne consegue, nell’ambito di un medesimo licenziamento collettivo, tra assunti prima e assunti dal 7 marzo 2015 in poi, perché solo ai primi è assicurata la tutela reintegratoria;
3) inadeguatezza e insufficiente efficacia dissuasiva della mera tutela monetaria.
La Corte costituzionale, dopo aver escluso l’eccesso di delega, giustifica la differenza di trattamento sanzionatorio legata al tempo dell’assunzione dei dipendenti col richiamo alla propria giurisprudenza secondo cui il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche, qui ritenuta in concreto ragionevole in relazione alle finalità perseguite dal legislatore (favorire nuova occupazione, specialmente giovanile).
Infine, ribadito che il diritto comunitario e la stessa Costituzione non impongono, in caso di licenziamento illegittimo, la tutela reintegratoria, ma una tutela comunque adeguata e dissuasiva, la Corte valuta quella indennitaria in oggetto (quale risultante a seguito della sentenza della Corte n. 194 del 2018, che ha eliminato la progressione tra il minimo e il massimo dell’indennità esclusivamente in base all’anzianità) sufficiente a garantire il diritto al lavoro.
Si tratta di una sentenza destinata evidentemente ad orientare la valutazione di ulteriori questioni di legittimità costituzionale. Va detto infatti che, proprio in ragione dell’introduzione delle tutele crescenti e dell’abolizione del regime reintegratorio previsto dall’articolo 18, commi 4 e 7 della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), il Jobs Act è da tempo al centro di una nutrita serie di dubbi e interrogativi di costituzionalità.
A tale riguardo la Corte ha chiarito come la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non possa che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie, adombrando di fatto la necessità di un ripensamento complessivo dell’intricata questione.