Licenziamento disciplinare, è sempre da valutare la proporzionalità del fatto rispetto alla sanzione. Ma, una volta accertata, scatta la convalida del recesso. E’ una sentenza destinata a far discutere quella della Corte di Cassazione n. 15209 del 20 giugno 2017, riguardante un licenziamento disciplinare per insubordinazione. Se, infatti, da un lato sembra “smontare un principio-cardine del jobs-act, ripristinando il concetto di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto ex art. 2106 del Codice Civile, valido per tutto il diritto punitivo, dall’altro convalida il recesso irrogato a una dipendente insultante e insubordinata.
Nel caso in questione una dipendente aveva commesso condotte oggetto di contestazione disciplinare e poste a base del licenziamento: in particolare pronuncia a gran voce ed in presenza di terzi di espressioni gravemente infamanti, gratuitamente offensive e diffamatorie e lesive dell’onore e del decoro dell’ente presso cui era impiegata (ma il caso si può riferire a qualsiasi tipo di rapporto di lavoro e datore) e delle altre collaboratrici in servizio, plurimi episodi di insubordinazione e rifiuto di prestare servizio allo sportello e di effettuare la protocollazione degli atti (anche qui si tratta solo di un caso esemplare: si potrebbe pesare a qualsiasi mansione), prolungata perdita dell’autocontrollo. La corte di Appello ha legittimato il licenziamento, e gli Ermellini hanno confermato l’orientamento.
I giudici esordiscono affermando che deve “escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto. La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo, e risulta trasfusa per l’illecito disciplinare nell’art. 2106 c.c., con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari”. In parole più semplici, spetta dunque al giudice di merito la valutazione di proporzionalità, e la decisione del giudice “è sindacabile in cassazione solo a condizione che la contestazione contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale”.
Senonché in questo caso il giudice aveva ragione. Infatti la Cassazione afferma che la sentenza impugnata dalla dipendente ricorrente “ha tratto il giudizio di proporzione della sanzione risolutiva rispetto ai fatti contestati, nei termini risultati accertati con applicazione dei principi affermati dalla stessa Corte di Cassazione in tema di giusta causa di licenziamento. La valutazione è stata, poi, formulata non in via astratta, come opina la ricorrente, ma in considerazione degli aspetti concreti del rapporto dedotto in giudizio, del ripetuto rifiuto di svolgere le mansioni affidate, della rilevanza penale dei comportamenti (espressioni ingiuriose e diffamatorie contrarie al decoro ed all’onore del datore di lavoro e delle colleghe di lavoro), del clamore dei comportamenti, della protrazione nel tempo della condotta e dell’elemento intenzionale, tratto dalla manifestata incapacità di gestire in maniera controllata le relazioni (ed i contrasti con le colleghe) nell’ambito di un contesto lavorativo di normalità. E nemmeno la dedotta condizione di prostrazione psicologica, che, peraltro, la ricorrente non allega di avere sottoposto all’attenzione della Corte territoriale, sarebbe idonea ad infirmare la coerenza del giudizio valoriale di gravità formulato nella sentenza impugnata. In ultimo, nemmeno la mancata intenzionalità del comportamento dichiarata dalla ricorrente avrebbe effetto reintegratorio: infatti anche comportamenti di natura solamente colposa, dunque non intenzionali, possono comunque compromettere il vincolo fiduciario fra datore e dipendente.