“Eppure glielo avevo detto di non andare lì””, “quante volte gli ho ripetuto di non fare quel lavoro!”, “io glielo avevo vietato, se l’è proprio andata a cercare…”, e via discorrendo. Quante volte, di fronte a un infortunio più o meno serio, il datore si abbandona a osservazioni di questo genere, adducendo a scusante il fatto di aver avvertito il lavoratore incauto della pericolosità di un certo luogo o di una determinata operazione, e di avergli addirittura intimato di astenersene? E’ una scena ricorrente nei cantieri e va detto, fin da subito, che secondo i giudici tali divieti -anche se in forma scritta- possono non rappresentare un sufficiente elemento di discolpa. Soprattutto laddove venga accertata la negligenza datoriale in tema di sicurezza sul lavoro.
A questo proposito veramente interessantissimo, per il settore delle pulizie/ servizi integrati/ multiservizi, il caso affrontato dalla Corte Suprema di Cassazione – Sez. Penale, nella sentenza 12326/2024 del 26 marzo scorso, 14 pagine destinate a fare scuola perché contengono, uno dopo l’altro, principi-cardine fondamentali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e relative gravi responsabilità datoriali. Si parla purtroppo di un infortunio con esiti mortali occorso a un lavoratore caduto da una scala nel corso di un’attività vietata dal datore (riparazione -ma potrebbe benissimo essere pulizia o piccola manutenzione- all’interno di un silos).
Ebbene, appurato che il datore aveva effettivamente vietato tale lavorazione, gli Ermellini sono partiti con l’osservazione che tale lavoro non è da ritenersi esorbitante rispetto all’ambito di attività dell’impresa, pertanto si trattava di un’operazione che il datore avrebbe ben dovuto prevenire e gestire. In altri termini la condotta colposa del lavoratore infortunato non esclude la responsabilità del datore di lavoro quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta, che il datore di lavoro è tenuto a prevenire e governare.
Cosa ancor più grave il fatto che la vittima operava in una situazione in cui erano state accertate plurime violazioni, da parte del datore di lavoro, delle prescrizioni di sicurezza: tra queste la scala senza aggancio stabile, la mancanza di assistenza necessaria all’operazione, la mancata formazione dell’infortunato e così via.
La condotta incauta dell’addetto non vale dunque a giustificare le omissioni e le negligenze datoriali nell’adempiere alle prescrizioni della normativa antinfortunistica. Nelle parole dei giudici si legge che, qualora l’evento infausto giunga ad esito “di una molteplicità di disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia in quanto l’inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della stessa sfera di rischio”.
E ancora, hanno rincarato i giudici: perché si possa considerare il comportamento negligente, imprudente e imperito da parte del lavoratore (pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate) come concretizzazione di un rischio eccentrico, con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia predisposto anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente. Il datore dovrebbe dunque prevedere e “disinnescare” anche l’imprudenza dei dipendenti qualora questa non sia totalmente esorbitante dal lavoro dell’impresa.
Dall’insieme di tali considerazioni si evince, in sintesi, che perché si possa esimere il datore da ogni responsabilità occorre un comportamento da parte del dipendente non solo imprudente e incauto, ma anche completamente eccentrico, “radicalmente ed ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro”: insomma totalmente estraneo rispetto alle proprie mansioni e all’attività di norma svolta dall’impresa datrice, la quale comunque dovrà dimostrare di aver messo in atto tutte le precauzioni e le previsioni di legge. In un altro passaggio la Cassazione si spinge addirittura a parlare di “abnormità”. Una prospettiva che rischia di trasformarsi per l’impresa in una sorta di probatio diabolica.
A ciò si aggiunga il fatto che al datore spetta, come ribadito anche in questo caso, non solo il compito di impartire le necessarie istruzioni antinfortunistiche e, ovviamente, di prevedere l’adeguata formazione dei dipendenti, ma anche di effettuare stringenti e rigorosi controlli sull’effettiva applicazione delle misure (lampante è l’esempio dei Dpi consegnati con verbale di ricevuta, oggetto di apposita formazione specifica ma poi non indossati, con responsabilità che ricade comunque anche sul datore!).
Il messaggio è dunque forte e chiaro, la tendenza ben precisa: attenzione a ogni minima superficialità in tal senso, i rischi sono gravissimi. Tantopiù in una temperie come l’attuale, in cui i recenti gravi infortuni sul lavoro con relativi echi mediatici hanno alzato l’attenzione dell’opinione pubblica e, c’è da prevederlo, inaspriranno l’approccio della giurisprudenza nei confronti dei datori meno attenti.