Capita, purtroppo, che un lavoratore divenga fisicamente inidoneo alla mansione. Ciò accade con relativa frequenza in caso di soggetti disabili, ed è una questione che interessa da vicino molte imprese di pulizia/ multiservizi/ servizi integrati, che si trovano spesso ad affrontare situazioni del genere.
Proprio su un caso come questo si è recentemente espressa la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in via definitiva su un recesso intimato da una datore di lavoro nei confronti di un lavoratore portatore di handicap per sopraggiunta inidoneità alla mansione assegnata. Il datore adduceva ad argomentazione la verificata impossibilità di “ripescaggio”, con ciò intendendo l’assenza di posizioni vacanti in azienda.
Orbene, secondo gli Ermellini (sentenza n. 6497 del 9 marzo scorso) ciò non è sufficiente. Il datore, infatti, avrebbe ragionato tenendo per fermo il “contesto statico della precostituita struttura aziendale”, senza cioè valutare la possibilità di riadattare tale organizzazione in maniera flessibile per adottare “accomodamenti ragionevoli” in una prospettiva di riorganizzazione del lavoro aziendale atta alla salvaguardia del posto di lavoro.
Secondo la Cassazione, infatti, il rispetto del principio di parità di trattamento delle persone con disabilità impone l’adozione di ogni misura che sia ragionevolmente consentita all’impresa, sul piano organizzativo e finanziario, per evitare il licenziamento. Si tratta del cosiddetto “accomodamento ragionevole”, un principio con il quale ogni datore di lavoro dovrebbe familiarizzare perché sempre più affermato nella giurisprudenza giuslavoristica, soprattutto in relazione a persone con inidoneità: e la verifica sulla ragionevolezza dell’adattamento va effettuata bilanciando l’interesse del lavoratore con handicap alla conservazione del posto di lavoro con il legittimo interesse di parte datoriale ad avere una prestazione utile al buon andamento aziendale.
Non basta però -ed è questo il punto- una verifica superficiale e generica: è invece necessaria una verifica puntuale, caso per caso, considerate le peculiarità dell’impresa e alle ridotte capacità fisiche del lavoratore diversamente abile, tenendo anche conto dell’impossibilità di peggiorare le mansioni degli altri lavoratori.
Ovviamente spetta al datore di lavoro l’onere di provare non solo l’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, ma anche quella di una riorganizzazione utile a preservare il posto di lavoro, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili. Il recesso, in tale contesto, deve essere considerata una misura estrema, adottabile soltanto allorquando non vi sia nessuna possibilità di riorganizzazione o accomodamento ragionevole. Va da sé -consideriamo noi- che, per il datore, dimostrare tutto questo rischia di diventare una vera e propria “mission impossible”.