Un tema ricorrente in ambito giuslavoristico, negli ultimi anni, è quello della riservatezza dei messaggi pubblicati sui social network o nelle chat. In parole semplici: fino a che punto è lecito esternare su internet il proprio pensiero riguardo al lavoro? E, d’altra parte, fin dove possono spingersi i controlli datoriali?
Dall’impiegata di mensa scolastica che denigra la qualità dei cibi all’impiegato che lascia un commentino al veleno sulla bacheca aziendale, fino al video ironico e acido su TikTok. Senza contare immagini, emoticon, commenti, riferimenti più o meno velati a situazioni di malessere, disagio o insoddisfazione in azienda. Sono sempre più, e sempre più dilaganti, i casi di dipendenti che si lasciano andare a sfoghi relativi al proprio lavoro. Con esiti a volte catastrofici, che si concretizzano in provvedimenti disciplinari e, in estremo, anche nel licenziamento.
Casi che, sempre più di frequente, finiscono sul tavolo dei giudici del lavoro, chiamati a decidere sulla legittimità o meno dei provvedimenti datoriali. Anche perché, va detto, i datori di lavoro sono sempre più attenti a ciò che avviene sui social network e sempre meno disposti a tollerare la “cattiva pubblicità”, a volte ingiustificata, che giocoforza ne consegue.
Anche perché c’è una bella differenza fra messaggio privato e post sui social, e se in linea generale i messaggi scambiati in chat private sono coperti dal segreto della corrispondenza, i messaggi sui social network hanno una diffusività ben maggiore ed è comprensibile che finiscano più facilmente nel mirino dei datori di lavoro.
Orbene, cosa si dice nelle aule dei tribunali? Va detto, innanzitutto, che si avverte una tendenza piuttosto accentuata, da parte dei magistrati, ad essere meno morbidi in questi casi. Prendiamo ad esempio il recente pronunciamento della Corte d’Appello di Catanzaro, che ha convalidato il licenziamento intimato ad una addetta alla mensa scolastica che aveva criticato su Facebook la qualità del cibo somministrato, mettendo addirittura in dubbio l’onestà dei consiglieri comunali che avevano effettuato l’ispezione sent. n. 1352 del 28/12/21).
Quanto alla possibilità di controllo, nemmeno questa è sfuggita all’attenzione dei giudici, che hanno ribadito come al datore spetti piena facoltà di verificare i profili social dei dipendenti e di sanzionarli se i post sono offensivi o scritti durante l’orario di lavoro. Il principio è quello della pubblicità delle pagine, tale da rendere i commenti potenzialmente lesivi dell’immagine aziendale. D’altra parte, come recentemente accaduto a Genova, anche il numero di contatti e di “amici” ha il suo bel peso: più sono, più alto è il potenziale rischio di danno all’immagine per l’azienda.
E attenzione: non si parla solo di commenti esplicitamente offensivi. Al vaglio anche faccine, applausi (di conferma o ironici), braccia muscolose (uno degli emoticon più usati), pollici in su (like), sorrisi ecc. Ma c’è di più: molto interessanti le conclusioni a cui è giunto il giudice romano (sent. n. 6854/23), che ha condannato una lavoratrice che, indossando la divisa da lavoro, ha girato un video su TikTok lamentandosi del fatto che fosse solo mercoledì, con tanto di lingue di fuori e occhi strabuzzati.
Nemmeno l’utilizzo di una tonalità ironica può salvare il dipendente dal rischio licenziamento. Ormai divenuta “storica”, in questo senso, è la pur recente sentenza n. 175 del 5 luglio 2021 del Tribunale di Ancona, sez. lavoro. In quel caso il lavoratore aveva assegnato una sola stella su cinque all’azienda per la quale lavorava, lasciando come commento la frase “Lasciate ogni speranza”. Un’erudita citazione letteraria che non è valsa a rabbonire il datore di lavoro.