La disciplina del licenziamento, come è noto, ha subito delle variazioni a seguito dell’entrata in vigore del “cura Italia”, il Dl 18/2020 (che prevede il divieto dei licenziamenti riconducibili a esigenze aziendali per 60 giorni dall’entrata in vigore), e della sua conversione in legge con modificazioni (legge 27/2020): all’art. 46 del decreto legge si prevede di precludere alle imprese i licenziamenti individuali per motivo oggettivo dal 17 marzo al 15 maggio 2020, mentre per i licenziamenti collettivi sono, altresì, sospese le procedure di riduzione del personale dopo il 23 febbraio.
In seguito alla conversione in legge è stata tuttavia inserita la previsione secondo cui si fanno salve “le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore”, così allentando la portata della previsione normativa precedente. Insomma, i licenziamenti permessi, se ci atteniamo al testo, sarebbero soltanto quelli con immediata riassunzione.
Ma basta la semplice previsione di una clausola sociale per “liberare” il gestore uscente? E come si può avere certezza degli effettivi tempi di riassunzione? Qual è la distinzione di responsabilità fra l’appaltatore uscente, che intima il recesso, e il subentrante, che ha in capo l’onere della riassunzione? Con quale criterio è possibile vincolare la liceità di un licenziamento all’azione di un altro soggetto (il subentrante)? Tutte questioni ad oggi non risolte, e complicate ulteriormente dalla disciplina dei CCNL che, come il “Multiservizi”, già prevedono una “clausola sociale”: se optiamo per una lettura non letterale né a “comparti stagni” delle norme e della disciplina pattizia, sembra di poter affermare che la legittimità del recesso non sia vincolata all’effettiva riassunzione, ma che sia sufficiente la previsione delle clausole sociali. E che dunque i licenziamenti risultino legittimi anche senza dover attendere la riassunzione effettiva da parte dell’impresa che subentra nell’appalto.