Capita, a volte (anche se, in teoria, non dovrebbe succedere mai), di sentir parlare di trasferimenti confezionati “ad hoc” per rendere la vita impossibile al dipendente “scomodo” e, di conseguenza, costringerlo a interrompere il rapporto di lavoro. Ebbene, attenzione: si tratta di provvedimenti spesso impugnabili, come nel caso della lavoratrice suo malgrado protagonista della sentenza 3052/2017 del 6 febbraio scorso, con cui la Cassazione si è ancora una volta pronunciata su un caso di licenziamento “dubbio”. Un provvedimento destinato a rappresentare un importante precedente per molti casi analoghi.
In particolare, la Corte ha stabilito l’illegittimità di un licenziamento comminato da una società ad una lavoratrice appena rientrata dalla maternità, che ha rifiutato di prendere servizio in una sede lontana e per lei scomoda adducendo la “pretestuosità del trasferimento”, giustificato dall’azienda come dovuto a “riorganizzazione aziendale”.
Già la Corte d’Appello, peraltro, aveva ritenuto che il trasferimento fosse finalizzato all’espulsione dalla lavoratrice, considerato che la società, già quando la dipendente (inquadrata come I livello) era in astensione facoltativa, aveva assunto con contratto a t.i. un dipendente (II livello, quindi comportante un onere retributivo inferiore a carico dell’azienda). La Corte territoriale aveva valorizzato il disegno complessivo nel quale il provvedimento di trasferimento si è inserito, che traeva appunto origine dall’assunzione del nuovo dipendente con contratto di lavoro a tempo indeterminato avvenuta quando l’altra era ancora assente per maternità, affidandogli le mansioni da lei in precedenza svolte.
La Cassazione, ricollegandosi alle valutazioni espresse dalla Corte territoriale, ha ritenuto che il comportamento complessivo della società fosse preordinato alla espulsione della dipendente e non, invece, motivato da un corretto esercizio del potere di trasferimento. Spiega la Suprema Corte: “Pur a fronte dell’invocata riorganizzazione la posizione ricoperta dalla dipendente doveva essere a lei riassegnata al rientro dalla maternità considerate le sue competenze professionali non di certo inferiori a quelle del lavoratore chiamato a sostituirla durante il periodo di assenza dal posto di lavoro.”
Attenzione anche a questo: il campo di applicazione non si limita alla maternità (caso pure frequentissimo nelle imprese di pulizia / servizi integrati / multiservizi, ad alta intensità di manodopera femminile), ma si può estendere anche ad altre situazioni analoghe: prendiamo il caso di un’impresa, ad esempio, in cui un dipendente venga trasferito con motivi pretestuosi o precostituiti in un cantiere lontano o scomodo al fine di rendergli impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro (non dovrebbe accadere mai, ma a volte, lo sappiamo, succede). In caso di rifiuto, potrebbe invocare la sentenza in oggetto e costringere l’impresa al reintegro e, come in questo caso, al pagamento delle spese processuali.