Torniamo ad affrontare un argomento largamente dibattuto in sede di contenzioso sugli appalti labour intensive, come nel caso del settore delle pulizie/ servizi integrati/ multiservizi: ci riferiamo alla distinzione, più volte affrontata dalla giurisprudenza amministrativa e dalla disciplina giuslavoristica, fra “appalto genuino” e mera “somministrazione di manodopera”. L’occasione ci è data da due recenti sentenze, del medesimo tenore, che arrivano l’una dal Tribunale Amministrativo per la Campania (sez. V Sez. V, 21 aprile 2021, n. 2524), l’altra nientemeno che dalla Corte di Cassazione (Ordinanza n. 13413 del 18 maggio 2021).
Quali sono dunque i requisiti che rendono genuino un appalto distinguendolo dall’illecita fornitura di manodopera? Confermando un principio già sancito dal Consiglio di Stato, il Tar napoletano ha chiarito che nei “labour intensive”, dove l’apporto di attrezzature e capitale risulti assolutamente marginale rispetto alle prestazioni lavorative, ciò che veramente rileva per considerare il rapporto un appalto genuino -e non una mera interposizione di manodopera- è che l’appaltatore sia l’effettivo datore di lavoro dei collaboratori impiegati nell’appalto, potendo esercitare nei loro confronti un reale e pieno potere direttivo e di controllo, elemento preminente rispetto a quello, secondario, che sia a suo carico l’organizzazione dei mezzi necessari per l’esecuzione dell’appalto con relativo rischio imprenditoriale.
In definitiva – scrivono i giudici- l’appalto può essere ritenuto genuino e, come tale, lecito, non sconfinando in una somministrazione, tutte le volte in cui sussista da parte dell’appaltatore una propria organizzazione produttiva (che può anche risultare, avuto riguardo alle esigenze del servizio appaltato, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto) nonché l’assunzione del rischio d’impresa connesso all’esecuzione dell’opera o del servizio pattuito.
Anche la Cassazione, nell’Ordinanza 13413/21, torna sul tema, mettendo l’accento sull’organizzazione, direzione ed effettiva assunzione del rischio di impresa da parte dell’appaltatore. Per gli Ermellini, infatti, “il contratto di appalto, stipulato ai sensi dell’art. 1655 c.c. (giova ricordarne la nozione: L’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro), si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenza dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
Ora, se ne conclude che “la distinzione tra appalto genuino e somministrazione vietata di manodopera si individua dalla presenza dei seguenti requisiti (per la sussistenza dell’appalto genuino): organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, con la precisazione, però, che l’organizzazione dell’appaltatore può anche essere minima, con prevalenza dell’apporto di personale specializzato da parte dell’appaltatore; l’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavori utilizzati, da parte dell’appaltatore; l’assunzione da parte dell’appaltatore del rischio di impresa. Mancando tali requisiti si è in presenza di una somministrazione vietata di manodopera”.