Importante pronuncia della Corte di Cassazione (sent. n. 32412 del 22 novembre scorso) sull’annosa problematica della somministrazione irregolare di manodopera. Stavolta però la prospettiva è inconsueta, perché la questione non riguarda tanto il fatto in sé, ossia l’accertamento della regolarità o meno del rapporto di committenza, quanto il soggetto titolato ad effettuare i licenziamenti in caso di conclamata irregolarità nell’appalto stesso.
Il caso riguarda il settore della logistica, ma è facilmente applicabile, in via analogica, anche a quello delle pulizie/ servizi integrati/ multiservizi. In sostanza una lavoratrice, fittiziamente dipendente di un’impresa appaltatrice di una serie di servizi di magazzinaggio e trasporto, era in realtà fin dall’inizio alle dipendenze dell’impresa committente (dato acclarato già in sede di giudizio di merito). Senonché veniva licenziata dall’impresa di servizi appaltatrice. Sempre in sede di sentenza di merito, i giudici non convalidavano il recesso dichiarandolo inesistente e dunque imponendo alla committente la reintegrazione della lavoratrice.
La motivazione, confermata in Cassazione, è che la titolarità in capo al committente del dissimulato rapporto di lavoro della lavoratrice rendeva il committente stesso -in quanto “datore di lavoro sostanziale”- responsabile di tutte le azioni inerenti il rapporto di lavoro, ivi compreso ovviamente il recesso. Gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro, in sostanza, devono essere intesi come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione. E così in caso di appalto spurio il committente non può avvalersi del licenziamento effettuato dall’appaltatore, datore di lavoro formale.
Base giuridica è l’articolo 80-bis del Dl 34/2020, recante, come si ricorderà, “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonche’ di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”, che estende l’applicabilità della disciplina prevista per la somministrazione di lavoro irregolare “per il parallelismo delle tutele dei lavoratori contro fenomeni interpositori irregolari o simulati”.
Contestualmente i giudici della Suprema Corte hanno sottolineato che, in caso di appalto irregolare, deve applicarsi l’articolo 29 del dlgs 276/2003. Come abbiamo spesso ricordato, quest’ultimo (cd. “legge Biagi”), è il testo fondamentale per distinguere un appalto genuino da una somministrazione illecita di manodopera. Sancisce al comma 1: “Il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che puo’ anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonche’ per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”. Mezzi propri, potere organizzativo e rischio di impresa sono dunque i tre capisaldi dell’appalto vero e proprio, in mancanza dei quali (o anche di uno solo di essi) si ricade nella fattispecie dell’interposizione fittizia, con il committente che automaticamente diventa datore di lavoro sostanziale.
Va aggiunto che già con la precedente sentenza n. 30945 del 7 novembre scorso la Corte aveva affermato che, in materia di somministrazione irregolare di lavoro, a seguito della norma di cui all’art. 80 bis D.L. n. 34/2020, d’interpretazione autentica dell’art. 38 D. Lgs. n. 81/2015, il licenziamento effettuato dal somministratore non è da intendersi riferibile, come invece gli atti di costituzione e gestione del rapporto di lavoro, all’utilizzatore e deve ritenersi inesistente in quanto proveniente da soggetto diverso dal datore di lavoro effettivo. E ora, con la sentenza in esame, la Corte estende analogicamente la regola, in ragione “dell’identità di ratio e di tutela”.