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Appalto genuino, attenzione ai rischi di illecito

Affrontiamo oggi un argomento scomodo, ma che è il caso di tenere sempre presente perché, si sa, in questi casi la distrazione e la memoria possono giocare brutti scherzi: quello dell’appalto genuino, o, se preferite, corretto. Come sappiamo, il crinale tra appalto genuino e semplice interposizione di manodopera non è sempre molto definito, e alcuni appalti, per diversi motivi, si trovano in precario equilibrio tra le due forme, laddove la seconda è naturalmente illecita nell’ambito di un contratto d’appalto. L’appalto infatti, secondo la definizione dell’art.1677 del codice civile, è “il contratto con il quale una parte assume con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di una opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”. Secondo l’art. 29 della cd. legge Biagi (276/2003), che conteneva elementi di innovazione mai superati in questo senso, l’imprenditore (appaltatore) deve organizzare i mezzi necessari per compiere l’opera o il servizio commissionati: deve, quindi, dirigere i lavoratori alle proprie dipendenze senza che il committente possa interferire nelle modalità concrete di svolgimento del lavoro stesso; assumere il rischio d’impresa: rispondere, cioè, del risultato finale davanti all’appaltatore. Insomma, i tre macrorequisiti per stabilire la genuinità di un appalto di servizi sono rischio d’impresa, proprietà dei mezzi e autonomia organizzativa delle prestazioni.

Il primo è da intendersi come rischio economico, ed è legato all’impossibilità di prevedere con esattezza, in anticipo, i costi legati allo svolgimento di una prestazione. In poche parole: se l’appaltatore spende per effettuare un servizio più di quanto ricavi sono, per dirla semplice, “affari suoi”, così come nel caso non riesca a raggiungere il risultato previsto dal contratto. Concentriamoci ora, però, sugli ultimi due punti (mezzi e organizzazione): cosa succede se il dipendente della ditta appaltatrice, vale a dire dell’impresa di pulizie, prende le direttive da personale dell’ente appaltante? E cosa accade se il lavoro viene svolto con mezzi e strumenti di proprietà dell’appaltante stesso? Uno scenario che, come ben sappiamo, si verifica molto spesso. Ebbene, secondo la sentenza ricordata, che rappresenta l’ultimo di una lunga serie di orientamenti in materia, in tal caso non c’è correttezza nell’appalto, e si configura interposizione di manodopera, vietata dall’art. 1 della legge 1369/60. Ciò anche se la ditta appaltatrice non è fittizia e mantiene gli oneri di gestione amministrativa del rapporto (come le paghe dei dipendenti, la pianificazione ferie, ecc.). Questi ultimi, insomma, non bastano per fare dell’appalto di servizi un appalto genuino. E d’altra parte non è la prima volta che la suprema Corte si esprime sulla questione: un caposaldo nella giurisprudenza riguardante gli appalti “endoaziendali”, quelli cioè fondati sull’affidamento ad una impresa esterna (appaltatrice) di attività “inerenti al complessivo ciclo produttivo del committente” e che siano a bassa intensità organizzativa, rimane la sentenza di Cassazione 17049 del 23 giugno 2008, che riteneva tali appalti leciti ove sia possibile individuare il soggetto che esercita l’effettivo potere direttivo sui dipendenti, assumendone il rischio e non limitandosi alla semplice gestione amministrativa dei rapporti di lavoro.

Per realizzare un’ipotesi di intermediazione basta dunque che i dipendenti della ditta appaltatrice prendano ordini dal personale dell’ente appaltante, e che svolgano il proprio lavoro senza autonomia organizzativa e proprietà di mezzi e strumenti da parte dell’impresa: in tal caso è il committente, e non l’appaltatore, a esercitare i poteri tipici del datore di lavoro, e la legge lo riconosce obbligando l’appaltante ad assumere il personale dell’impresa. Una volta stabilito che ci si trova di fronte a somministrazione di manodopera e non di vero appalto, sono infatti previste sanzioni sia a carico dello pseudo-committente, sia a carico dello pseudo-appaltatore: il lavoratore dell’impresa, come detto, potrà chiedere per via giudiziale la costituzione di un rapporto di lavoro con colui che effettivamente è risultato il suo datore, e cioè con il committente (art. 27 del D. Lgs. 276/03). Vi sono poi conseguenze penali in capo all’utilizzatore e al somministratore previste dall’art. 18 del D.Lgs. 276/03. E le sanzioni pecuniarie: 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di lavoro.

Ma in questo sterminato campo c’è anche un’altra questione, altrettanto importante. Quella della natura del lavoro svolto: quanti cosiddetti prestatori di servizi effettuano, all’atto pratico, mansioni che possono ricondursi al ciclo produttivo dell’azienda cliente (intervenendo quindi su attività “core”)? O, ancora, quanti finiscono per svolgere un servizio diverso da quello oggetto della commessa? Anche in questo caso, occorre muoversi con grande attenzione, perché l’ipotesi di irregolarità è spesso meno remota di quanto si pensi.

La certificazione dell’appalto: perché e chi
Veniamo ora alla parte costruttiva: cosa fare per mettersi al riparo da ogni dubbio di autenticità dell’appalto? La risposta è semplice: farselo certificare!
La certificazione dei contratti di lavoro e di appalto è stata introdotta, proprio dalla lungimirante legge Biagi, con l’obiettivo di dare alle parti certezza del rapporto contrattuale e ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti stessi. Le più recenti modifiche ed integrazioni sono contenute nella l. n. 183/2010 (c.d. “Collegato Lavoro”). La certificazione può avvenire al momento della stipula del contratto, ma anche durante lo svolgimento del medesimo. Le commissioni di certificazione con cui avviare il procedimento sono quelle appositamente istituite presso:
– gli enti bilaterali costituiti dalle associazioni di datori e prestatori di lavoro nell’ambito territoriale di riferimento o a livello nazionale;
– le Direzioni Provinciali del Lavoro (DPL);
– le province (nell’attesa, aggiungiamo noi, di una revisione legislativa che chiarisca il destino di questi enti)
– le università pubbliche e private registrate nell’Albo istituito presso il Ministero del lavoro, attivo dal 22 febbraio 2005. La prima sede universitaria ad essere autorizzata Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, per il tramite del Centro Studi Internazionali e Comparati DEAL – Diritto, Economia, Ambiente, Lavoro – del Dipartimento di Economia Marco Biagi.

 

Riportiamo il testo della sentenza 12357

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 giugno 2014, n. 12357
Intermediazione vietata di manodopera – Appalti endoaziendali – Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – Accertamento

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, confermando la sentenza del Tribunale di Sassari, accoglieva la domanda di F.G. proposta nei confronti delle società R.F. S.p.A. e I. S.p.A., avente ad oggetto la declaratoria della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la prima di dette società.
A base del decisum la Corte del merito poneva il fondante rilievo secondo il quale, avuto riguardo alla fattispecie concreta, era emerso che il formalmente dipendente della società I. aveva appaltato alcuni servizi, nell’espletamento della sua attività aveva ricevuto direttive dal personale di quest’ultima società ed svolto il proprio lavoro nei locali della stessa insieme ai dipendenti di questa e con beni e strumenti di proprietà della medesima, venendosi in tal modo a determinare una illecita intermediazione poiché la società Italia, lungi dal fornire un servizio, aveva un fornito un lavoratore.
Avverso questa sentenza la società cassazione sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria.
Le parti intimate non svolgono attività difensiva.

Motivi della decisione

Con un unico motivo la società ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 1369 del 1960, 2 della legge n. 210 del 1985 e 2094 cc nonché erronea, insufficiente,illogica motivazione, pone i seguenti interpelli: 1.”sussiste o meno violazione del divieto di appalto di manodopera di cui all’art. 1 l. n. 1369 del 1960 nel caso in cui l’impresa appaltatrice svolga esclusivamente attività diretta a permettere alla società appaltante l’esercizio del servizio costituente l’attività di quest’ultima, ove risulti che la società appaltatrice, per organizzazione di capitale e di mezzi, è in grado di svolgere in autonomia le opere oggetto del contratto, mentre l’ingerenza dell’appaltante è limitata all’esercizio dei poteri di controllo stabiliti dalla legge?”; 2. “è sufficiente che l’organizzazione di mezzi di cui deve disporre l’azienda appaltatrice al fine di scongiurare la violazione del divieto di appalto di manodopera comprenda, relativamente ad un servizio appaltato, prevalentemente i mezzi concessi in uso dalla committente?”;
3.”sussiste o meno violazione del divieto di appalto di manodopera di cui all’art. 1 l. n. 1369 del 1960 che operi o meno in riferimento agli appalti endoaziendali caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, qualora l’appaltatore, comunque dotato ovvero fornitosi di specifica e reale organizzazione della prestazione stessa e di concreta forza ed autonomia economica tipica dell’imprenditore, metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore – datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione) mantenendo il potere dispositivo e di controllo sulle persone dipendenti dallo stesso appaltatore di servizi?”; 4.”sussiste il vizio di contraddittoria motivazione laddove la motivazione della sentenza sia in contrasto con le risultanze di cui ai documenti depositati ed acquisiti agli atti del processo?”.
Il ricorso è infondato riguardo, e alla dedotta violazione di leggi, e al denunciato vizio di motivazione.
Sotto il primo profilo va rilevato che la giurisprudenza di questa Corte è saldamente orientata nell’affermare il principio, che in questa sede va ulteriormente ribadito, secondo il quale il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (art. 1 legge 23 ottobre 1960, n.1369), in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore – datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo; né può ritenersi che l’operatività di un siffatto generale divieto trovi alcuna limitazione, negli appalti concessi dalle F. successivamente all’entrata in vigore della legge 17 maggio 1985, n. 210, nella disciplina (speciale e posteriore rispetto all’art. 1 della legge n. 13569 del 1960) dell’art. 2, primo comma, lett. i), della citata legge n. 210 del 1985, la quale, pur conferendo ampio rilievo alle finalità di economicità ed efficienza dell’organizzazione delle F e alle conseguenti esigenze di elasticità e flessibilità nella dislocazione dei servizi e del personale, non ha, tuttavia, inteso consentire all’Ente F. più di quanto non fosse consentito all’imprenditore privato in tema di appalti di mano d’opera (Cfr. per tutte Cass. 5 ottobre 2002 n. 14302, Cass. 19 luglio 2007 n.16016 e Cass.13 marzo 2013 n.6343).
Né è necessario per realizzare un’ipotesi di intermediazione vietata, che l’impresa appaltatrice sia fittizia, atteso che, una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore all’organizzazione e direzione del prestatore di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, rimane priva di rilievo ogni questione inerente il rischio economico e l’autonoma organizzazione del medesimo (per tutte V. Cass 20 maggio 2009 n.11729, Cass. 6 aprile 2011 n. 7898 e, da ultimo, Cass.28 marzo 2013 n.7820).
Nella specie la Corte del merito si è attenuta a siffatti principi e sulla base del rilievo, congruamente argomentato, che le risultanze istruttorie, davano conto che l’organizzazione e le direttive del lavoro che il F. doveva eseguire promanavano da personale della società R.F., ha correttamente ritenuto integrata la fattispecie dell’illecita interposizione nella prestazione lavorativa, vietata dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1, applicabile ratione temporis, ancorché attualmente abrogata.
Quanto alla valutazione da parte della Corte del merito delle emergenze istruttorie si tratta di un accertamento di fatto che in quanto assistito da motivazione sufficiente e non contraddittoria si sottrae al sindacato di questa Corte.
Né può sottacersi che i documenti richiamati dalla parte ricorrente, non sono stati, in violazione del principio di autosufficienza, trascritti, almeno nella parte che interessa, nel ricorso. D’altro canto non risulta che tali documenti sono stati depositati insieme al ricorso a norma dell’art. 369 n.4 cpc. Le stesse dichiarazioni testimoniali, del resto, sono trascritte per stralcio.
Il ricorso,in conclusione, va rigettato.
Nulla deve disporsi per le spese del giudizio di legittimità non avendo le parti intimate svolto attività difensiva.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di legittimità

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