Giro di vite giurisprudenziale sugli usi impropri o distorti dei permessi retribuiti previsti dalla legge 104 del 1992, che come ricorderà si possono fruire fino a un massimo di tre giorni al mese.
La sentenza della Corte di Cassazione n. 8784 del 30 aprile scorso, a conferma della precedente decisione in Appello, ha legittimato il licenziamento comminato a un dipendente che, dopo aver chiesto il “permesso 104” per assistere la madre gravemente disabile, è stato sorpreso in attività ricreative, in particolare a una festa danzante. “Qualcosa, insomma, che nulla aveva a che vedere con l’assistenza”. Licenziato per giusta causa, dunque.
La vicenda sembra strana, ma casi come questo sono tutt’altro che infrequenti nelle imprese: pensiamo ad esempio a chi, semplicemente, chiede il permesso per svolgere un secondo lavoro (ad esempio andare a fare pulizie o lavori di vario genere presso privati), o per fare altro rispetto allo scopo per cui il permesso viene riconosciuto. Negli ultimi anni la giurisprudenza ci ha abituato alla “linea dura” contro gli utilizzi impropri di questo tipo di permessi, arrivando addirittura a legittimare l’ingaggio di uno “007” privato da parte del datore con fondati sospetti in tal senso (sentenza Cassazione 4984 del 4 marzo 2014).
A nulla, fra l’altro, è valsa l’argomentazione che il lavoratore ha utilizzato il permesso solo parzialmente per dedicarsi all’attività ludica, mentre nelle ore precedenti aveva regolarmente assistito la madre. Per la Corte, infatti, “È indubbio che la condotta di chi sfrutta anche una sola ora dei “permessi della 104” non per assistere il parente ha, in sé, un disvalore sociale da condannare. In questo modo, infatti, si scarica il costo del proprio ozio sulla collettività. Anche volendo ritenere che le residue ore del permesso vengono utilizzate per assistere il parente, resta il fatto che una parte del permesso è stata utilizzata per scopi diversi rispetto a quelli per cui è stato riconosciuto”.