(Tratto da “GSA” n.12, Dicembre 2010) Nella cornice di Ecomondo un convegno che riflette sul tema della sostenibilità: un modo di operare virtuoso che fa capo ad uno sforzo sociale collettivo e che ancora troppo spesso viene ridotto a semplice greenwashing. L’industria alimentare ha ben chiari gli obiettivi e i percorsi da perseguire per migliorare l’efficienza del settore.
Nell’ambito della quattordicesima edizione di ECOMONDO – Fiera Internazionale del Recupero di Materia ed Energia e dello Sviluppo Sostenibile- lo scorso 3 novembre a Rimini si è svolto il convegno dal titolo Sostenibilità certificata e greenwashing, promosso e organizzato da CSQA, Ente di certificazione tra i più accreditati nel panorama internazionale, con il patrocinio di FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italia) e di AssoSCAI (Associazione per lo Sviluppo della Competitività Ambientale di Impresa). Un’occasione di confronto e di approfondimento sul tema della comunicazione ambientale e della certificazione legata alla sostenibilità.
Greenwashing: il verde all’acqua di rose
Sono stati in particolare affrontati i rischi legati alla proliferazione del Greenwashing, neologismo che sta a indicare la cattiva abitudine, da parte di aziende, enti e organizzazioni, di presentarsi o di presentare i propri prodotti, progetti e servizi come “green”dichiarando virtù ambientali per migliorare la propria immagine all’esterno, senza di fatto investire concretamente in politiche produttive, gestionali e distributive sostenibili. Si tratta di una pratica ampiamente diffusa, soprattutto nell’ambito della Green Economy e che ha preso piede a fronte della crescita di consapevolezza da parte dei consumatori. Inutile dire che una politica sostenibile, per essere davvero efficace, deve mettere in conto una revisione all’interno delle politiche aziendali e deve prevedere uno sviluppo organico dei progetti verdi. Il greenwashing, insomma, è più che altro uno specchietto per le allodole: non sviluppa né ecologia, né efficienza; mentre la sostenibilità, traguardo ineludibile nel lungo periodo, è una cosa seria e non può essere affrontata in modo superficiale, come se fosse una moda, ma dev’essere approcciata in modo organico e sistematico, lavorando su più fronti.
Un approccio sistemico
«La sostenibilità, pur essendo un obiettivo condiviso da istituzioni, imprese e consumatori è un cantiere sempre aperto in cui gestione, innovazione e comunicazione devono saper trovare principi e strumenti comuni per creare, garantire e trasferire quell’elemento fondamentale che si chiama fiducia – spiega Michele Crivellaro, referente della Divisione Ambiente, Territorio e Responsabilità Sociale di CSQA e moderatore dell’incontro –. Questo convegno ha voluto rappresentare un momento di confronto con il mondo della comunicazione sul tema della sostenibilità, focalizzando l’attenzione sullo strumento della certificazione e sui principali riferimenti metodologici e normativi».
Entrando più nel dettaglio, Crivellaro, da noi intervistato per un approfondimento, ci spiega infatti che «stiamo attraversando una fase in cui il mercato ha preso finalmente coscienza dell’importanza e dell’attenzione che va data alla sostenibilità dei processi produttivi: lo sottolineano svariate indagini europee che mettono in luce una crescente consapevolezza anche da parte del consumatore. Un’azienda che voglia convertirsi al green non può semplicemente “pennellare di verde” la propria gamma di prodotti: a lungo termine perderebbe credibilità con un ritorno d’immagine disastroso. E tuttavia non è semplice capire come e dove investire per votarsi in modo serio alla sostenibilità e si finisce, proprio malgrado, nell’effetto greenwashing. Non basta, infatti, lavorare sul prodotto ma è necessario investire anche a livello di gestione e di organizzazione interna: bisogna dotarsi di quegli strumenti che coinvolgano le istituzioni. In questo contesto, l’etichettatura e la certificazione ambientale possono svolgere un ruolo fondamentale per aziende ed enti pubblici che, attraverso progetti, prodotti e servizi, intendono creare e trasferire valore ambientale. Insomma, la vera sfida è rendere normali i prodotti sostenibili e non viceversa».
Focus sull’industria alimentare: l’LCA
Sul fronte del prodotto, ad esempio, la vera svolta sta a monte, nella fase di analisi delle diverse fasi di vita del prodotto per determinare quali siano i punti di maggiore impatto ambientale. Ogni prodotto ha infatti diversi apici di incidenza ambientale: se pensiamo ad un detersivo, la fase di consumo (tanto più se scorretta) da parte dell’utente finale è determinante nell’impatto laddove non lo è per, ad esempio, per il prodotto alimentare. Nel settore dell’industria alimentare, infatti, la fase di consumo ha tutto sommato scarsa rilevanza dal punto di vista dell’inquinamento prodotto, mentre sono determinanti le fasi corollarie di trasporto, packaging, origine delle materie prime e quella di post-consumo. È dunque chiaro che una mossa vincente sia quella di ragionare nell’ambito del Life Cycle Assessment (Valutazione del Ciclo di Vita), un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici ed ambientali e degli impatti potenziali associati ad un prodotto/processo/attività lungo l’intero ciclo di vita, dall’acquisizione delle materie prime al fine vita del prodotto stesso. È sulla base di questa analisi che poi si possono formulare efficaci iniziative ecosostenibili.
L’industria alimentare: fiore all’occhiello dell’Europa
«Le istanze di matrice ambientale e l’uso responsabile delle risorse giocano un ruolo fondamentale anche nel nostro settore – ci spiega Massimiliano Boccardelli, referente per l’Area Politiche Industriali e di Filiera di Federalimentare-. L’Industria alimentare è fortemente interessata al mantenimento degli ecosistemi, nella convinzione che le strategie e le politiche ambientali vadano attuate nel pieno rispetto dei tre pilastri – ambientale, sociale ed economico – che costituiscono i presupposti di una produzione agroalimentare sicura in termini di quantità degli approvvigionamenti, di qualità e di sostenibilità per le generazioni future». Secondo le stime di Federalimentare del 2009, l’industria alimentare nostrana vanta un fatturato 120 mld € e coinvolge aziende 32.400 (6.500 hanno da dieci dipendenti in su) per un totale di operatori 405.000 addetti (di cui 256.000 dipendenti) il settore esportazione vale 20 mld € (16% del fatturato, – 2 punti media Ue) e quello dell’import 16 mld € (saldo positivo per 4 mld €). Le categorie merceologiche più forti sono soprattutto quelle del settore lattiero-caseario (14,2 mld €), seguite da vino e liquori (10,7 mld €) dolciario (10,1 mld €)e carni fresche e trasformate (7,4 mld €).
Un profilo di tutto rispetto per un’industria che è assolutamente consapevole dell’impatto ambientale delle proprie attività ed è attivamente impegnata a sviluppare politiche sostenibili nell’ottica di aumentare l’efficienza dei processi e degli impianti, migliorare la qualità delle acque di scarico e sviluppare ogni forma di riuso, riciclo e recupero.
Basso impatto energetico ma alto impegno a migliorarsi
Benché infatti l’industria alimentare si caratterizzi per un impatto energetico relativamente basso rispetto ad altri settori industriali (secondo l’Agenzia Internazionale per l’Ambiente, infatti, è responsabile dell’1,5% del consumo energetico globale) è attivamente impegnata nella sfida dell’efficienza energetica, investendo sulla diffusione delle MTD per il controllo delle emissioni atmosferiche e sulla valorizzazione delle biomasse di seconda generazione di origine vegetale e animale, che scaturiscono dai processi di trasformazione alimentare. Naturalmente, la prima regola per una produzione alimentare sostenibile consiste nella valorizzazione integrale delle risorse, in tutte le loro componenti. L’Industria alimentare genera infatti rilevanti quantità di sottoprodotti, scarti ed effluenti (circa 300 mln/ton annue nell’Ue), che costituiscono, in media, il 2/3% dell’intero volume dei prodotti “secchi” ed il 7/10% dei prodotti “umidi”. Intervenire su questo punto è un impegno che il settore porta avanti in modo concreto attraverso diverse iniziative.
Il capitolo imballaggi
Gli imballaggi, poi, sono da sempre un punto di criticità poiché, se da un lato rappresentano un ingombro da smaltire, è innegabile che giochino un ruolo fondamentale nel preservare la qualità, l’igiene e la sicurezza degli alimenti, tanto che in alcuni PVS nei quali manca l’uso del packaging, la percentuale di alimenti soggetti a deterioramento prima di raggiungere il consumatore finale può arrivare al 50%. (G. Pre, Packaging of Food products – Its role and requirements – Pack. India 1997). Per questo l’industria alimentare ricorre agli imballaggi riutilizzabili, laddove il riuso può effettivamente costituire la migliore soluzione in termini di risparmio delle risorse, privilegiando altrimenti imballaggi destinabili a riciclo e recupero. Fioriscono poi iniziative volte alla salvaguardia del prodotto alimentare attraverso il cosiddetto eco-design, la riduzione del packaging terziario e secondario, l’impiego di materiali diversi per ottimizzare le combinazioni e l’utilizzo di materiali più leggeri, riciclati e riciclabili.
«Un impegno a 360° – commenta Boccardelli – confermato anche dalla partecipazione attiva alla discussione avviata a livello comunitario sugli strumenti volontari per una corretta valutazione e comunicazione dell’impatto ambientale dei prodotti alimentari e dalla grande attenzione riservata ai temi della produzione alimentare sostenibile nell’ambito delle priorità tematiche di ricerca individuate dalle Piattaforme Tecnologiche Ue e nazionale Food for Life.”
Il convegno: atto II
Tornando al convegno, la seconda sessione è entrata più nel merito degli strumenti per la sostenibilità ambientale con rimandi puntuali anche agli sviluppi normativi futuri.
In Italia è stato di recente realizzato un Protocollo per il calcolo delle emissioni di CO2 nel settore vitivinicolo. «Lo Studio Agronomico SATA – ha spiegato Marco Tonni, uno dei titolari del brevetto – ha rielaborato lo standard internazionale IWCC (International Wine Carbon Calculator), ufficialmente riconosciuto a livello mondiale dalla FIVS (Federation Internationale des Vins et Spiritueux), adattandolo alla filiera italiana del vino. Da questo lungo lavoro di adeguamento e di implementazione è scaturito Ita.Ca®, il primo e unico calcolatore di emissioni per il settore vitivinicolo italiano conforme agli standard internazionali».
Accanto al concetto di sostenibilità si sta affermando come nuovo paradigma quello dell’efficienza. «Negli ultimi anni stiamo assistendo a una crescente diffusione di tecniche e strumenti per il saving, l’ottimizzazione, la razionalizzazione delle risorse e dell’energia – ha sottolineato Domenico Andreis, del Dipartimento di Scienze Ambientali “Sarfatti” dell’Università di Siena – “Mutano pertanto i criteri di approvvigionamento e selezione dei fornitori, di produzione, distribuzione, consumo e gestione del fine vita dei prodotti, secondo un pensiero “life cycle”: cambia in sostanza il modo di approcciarsi alla filiera. Si passa dal concetto di catena di fornitura “classica” alla catena ecosostenibile. Oggi disegnare una Green Supply Chain significa adottare un nuovo e diverso approccio produttivo: di conseguenza, i metodi e le tecniche di comunicazione dovranno essere orientati a strategie, obiettivi e contenuti innovativi».
L’ultima sessione del Convegno è stata dedicata alle testimonianze, durante la quale sono state presentate le Case Histories, e in particolare le iniziative attivate per creare valore ambientale trasferibile ai prodotti, di Acqua Minerale San Benedetto Spa, Pozzoli Spa, Il Salcheto e Distillerie Bonollo, aziende che hanno fatto della compatibilità ambientale uno dei campi d’azione principali in cui esercitare la propria responsabilità sociale.