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Revisione Codice dei contratti

Diciamolo subito: in tema di criteri di valutazione della rappresentatività datoriale e soprattutto sindacale il cd. “correttivo al Codice dei contratti pubblici” -più tecnicamente dlgs 209 del 31 dicembre 2024- ha tutta l’aria di un “pasticciaccio”.

“Quer pasticciaccio brutto…”

Quello che doveva essere un chiarimento, infatti, rischia di mettere ancor maggiore confusione in una materia già di per sé non poco intricata, come più volte abbiamo avuto occasione di sottolineare. D’altra parte già sotto il profilo metodologico le premesse non erano delle migliori: nel bel mezzo dell’iter di approvazione del decreto, senza alcun annuncio né interlocuzione con le parti, era apparsa una inaspettata disposizione riguardante i criteri di rappresentatività delle associazioni sindacali: un tema caldissimo sul quale il legislatore si era sempre astenuto dall’intervenire direttamente; perdipiù in questo caso si parlava anche di associazioni datoriali, oltre che di organizzazioni sindacali, facendo riferimento ai criteri per individuare quelle “comparativamente maggiormente rappresentative”.

Il dietrofront che lascia un vuoto

Una mossa che, come era facile prevedere, ha subito suscitato la levata di scudi delle parti sociali, che si sono affrettate a chiedere un’interlocuzione urgente per capirci di più. Tra i vari tira e molla, nel decreto definitivo non vi è più traccia di criteri di rappresentatività: un passo indietro che ha però lasciato una “voragine” aprendo una terra selvaggia in cui orientarsi è pressoché impossibile.

Un contratto vale l’altro?

Il fatto più grave è che, mentre prima almeno si faceva riferimento alle “associazioni comparativamente maggiormente rappresentative” (seppure in assenza di criteri chiari), ora il Decreto correttivo finisce per non chiarire nemmeno l’applicazione contrattuale, a partire dal fatto che non impone l’applicazione di CCNL precisi. Un contratto… vale l’altro, verrebbe da dire. Con il risultato che “vale un po’ tutto”, e tornano in vita gli oltre 900 contratti registrati presso il Cnel, la maggior parte dei quali sottoscritti da associazioni scarsamente rappresentative.

Non c’è più obbligo

Dunque le stazioni appaltanti devono indicare il contratto “applicabile”, ma questo non è obbligatorio. Va detto che in tale senso può venire in aiuto l’adozione nel testo normativo dell’allegato I.01 e le previsioni in esso contenute, che contribuiscono a fare luce su alcune questioni relative a metodo, contenuti e ruolo dei soggetti nelle gare, riprendendo in parte le linee guida ANAC: ma le operazioni, considerata anche la complessità di orientarsi nel 14 macrosettori considerati dal Cnel, non appare per nulla agevole.

Resta il principio dell’equivalenza

Dal canto loro, però, le imprese devono però dimostrare l’equivalenza di eventuali contratti alternativi, sollevando dubbi sul ruolo che i Responsabili Unici Del Progetto devono svolgere nella verifica dei criteri previsti. La legge n. 56/2024 chiarisce meglio questo punto, stabilendo che “nel caso di appalti privati di lavori e servizi, è obbligatorio utilizzare il CCNL più rappresentativo e aderente all’oggetto del contratto”.

Tanti gli oneri

Il nuovo decreto lascia dunque fermo il principio generale secondo cui al personale impiegato in questi appalti deve applicarsi il contratto collettivo stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto (facendo riferimento anche alla specializzazione/ “prevalenza” delle attività svolte). Anche questo però non è facile, considerato anche l’onere della dichiarazione di equivalenza delle tutele che gli operatori economici possono affermare nella propria offerta qualora vogliano applicare un contratto diverso da quello concluso dalle associazioni maggiormente rappresentative.

Anche due o più contratti!

Se tutto ciò non bastasse, a complicare le cose interviene anche la previsione dell’art. 11 2 bis, laddove stabilisce che in caso di prestazioni scorporabili, secondarie, accessorie o sussidiarie, qualora le relative attività siano differenti da quelle prevalenti e si riferiscano, per una soglia pari o superiore al 30%, alla medesima categoria omogenea di attività, le stazioni appaltanti indicano il contratto di lavoro in vigore per il settore e la zona interessata, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Una norma che apre il campo all’applicazione non di uno, ma di due o anche più contratti in caso di attività particolarmente complesse (pensiamo ad esempio ad attività di pulizie/ multiservizi/ servizi integrati e, per dirne una, guardiania/vigilanza). 

Speriamo di sbagliarci, ma…

Non poche perplessità sorgono anche sul ruolo del Ministero del Lavoro, che in assenza di tabelle di determinazione del costo medio del lavoro è tenuto ad effettuare una determinazione prendendo in considerazione una serie di parametri e informazioni non meglio definiti, visto  che si torna proprio al tema di quei criteri su cui il legislatore tace da decenni. Insomma, questo correttivo, pur nelle lodevoli intenzioni, ha tutto il sapore di una “liberalizzazione” o, meglio “deregolamentazione” che, senza dubbio, riporterà in auge lo spettro dei massimi ribassi, a tutto svantaggio della concorrenza leale e trasparente. Non resta che sperare di sbagliarsi.

Link dlgs 209/24

 

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