Un altro tema ultimamente all’ordine del giorno in materia di disciplina del recesso è senz’altro quello del repêchage, ossia il dovere datoriale, in caso di motivi oggettivi, di esperire tutti i tentativi possibili di reinserimento del lavoratore in un’ottica conservativa. E di provarne l’effettiva impraticabilità.
Il principio-cardine
Il principio-chiave, ribadito una volta di più dal Tribunale di Napoli Nord con sentenza n. 3779 depositata il 23 luglio 2024, è quello della prevalenza della tutela conservativa, il cui onere probatorio grava in capo alla parte datoriale, vale a dire che deve essere provata dettagliatamente dal datore. Nel caso di specie il ricorrente (che peraltro lamentava di aver subito ripetuti atti vessatori in contesto lavorativo – a tal proposito va detto che la Corte ha rigettato l’impugnativa del recesso per ragioni ritorsive) era stato infine licenziato per giustificato motivo oggettivo, cioè per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento.
Difficoltà economica, riorganizzazione…
Nell’ottica dell’impresa tali ragioni trovavano radice in una situazione di crisi economica, e si consolidarono con l’impossibilità di collocare il lavoratore in altre mansioni a causa del suo frequente stato di malattia e per motivi anche legati a esigenze di riorganizzazione aziendale: in sintesi l’impresa sosteneva che, stanti le numerose assenze del lavoratore, si trovava costretta addirittura a modificare il ciclo produttivo. Si tratta di una condizione che ricorre assai di frequente nell’attività delle imprese di pulizie/ servizi integrati/ multiservizi, alle prese con tassi di assenteismo che superano spesso il 30% o più: per questo la sentenza in oggetto appare ancor più interessante.
… l’impresa le deve provare nel dettaglio
Dunque, a fronte della genericità della difesa datoriale la Corte di Appello partenopea eccepiva il fatto che l’impossibilità di “ripescaggio” deve essere provata nel dettaglio: non è dunque sufficiente il generico rimando a “esigenze riorganizzative” o “difficoltà economiche”: occorre invece specificarne le modalità, allegando anche documenti specifici, come ad esempio organigrammi da cui evincere una modifica dell’assetto aziendale o risultanze (es. bilanci, prospetti di reddito e di capitale, ecc.) dalle quali poter dedurre l’effettiva sussistenza una crisi economica. “… Invece “La società ha eccepito esclusivamente che a causa dello stato di morbilità e della sua limitazione parziale alla mansione originariamente svolta, essa è stata costretta a modificare il ciclo di produzione aziendale”.
Una difesa poco credibile
Tale affermazione risulta non solo sprovvista di qualsivoglia elemento probatorio, ma anche poco credibile in quanto è incontestato tra le parti, oltre che documentalmente provato dalla visura camerale in atti, che la società ha più di 15 lavoratori alle proprie dipendenze (35 nel primo trimestre del 2024). Risulta, pertanto, poco credibile che una società con un numero di lavoratori alle proprie dipendenze di gran lunga superiore ai 15 sia costretta a modificare il ciclo di produzione in conseguenza della necessità di utilizzo con limitazione di un solo lavoratore.” Pertanto, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo.
I paletti del “motivo oggettivo giustificato”
Per comprendere il ragionamento, ormai pressoché univoco, della giurisprudenza di merito occorre soffermarsi sull’aggettivo participiale “giustificato” che completa il sintagma di specie: per “giustificato” il legislatore -che non usa le parole a caso- intende in effetti comprovato nel dettaglio: e di fatto il licenziamento per giustificato motivo è legittimo se il riassetto organizzativo è effettivo e non pretestuoso, fondato su circostanze realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso e non riguardante circostanze future ed eventuali.
Attenzione ai recessi “leggeri”
Deve inoltre sussistere un nesso causale tra il riassetto aziendale e il licenziamento del lavoratore, e deve essere infine verificata l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni. Ed evidentemente l’onere della prova grava in capo al datore di lavoro, essendo il lavoratore sottratto all’onere di individuare egli stesso -come spesso richiesto da parte datoriale- possibili posizioni disponibili. Di talché ne segue che finanche la soppressione stessa del posto di lavoro potrebbe non costituire condizione sufficiente a giustificare un recesso.
L’ipertutela fa il bene dell’economia (e del mercato del lavoro)?
Analogo onere probatorio si configura anche in relazione all’andamento economico dell’azienda. Attenzione dunque a provvedimenti presi con eccessiva leggerezza o superficialità: potrebbero non essere validi e sollecitare un contenzioso con esiti quasi certamente sfavorevoli per il datore. Tuttavia, pur senza nulla togliere al sacrosanto diritto del lavoratore alla conservazione del proprio impiego, ci sia consentito “in coda” un commento al pepe: non è che si stia andando verso un regime di ipertutela e ultragarantismo delle posizioni acquisite che imbriglia il mercato del lavoro e, lato sensu, non fa esattamente il bene del sistema economico nel suo complesso, anche in riferimento a un mercato del lavoro che appare sempre più stagnante e in stallo?