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Sms e messaggi WhatsApp: attenzione all’uso

La segretezza della corrispondenza, si sa, costituisce un diritto fondamentale dell’individuo costituzionalmente presidiato. L’art. 15 della Carta fondamentale recita infatti al primo comma: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”.

Il pronunciamento della Cassazione

D’accordo. Ma che succede per le forme di comunicazione più “volatili”, ma che di fatto oggi sono anche le più usate nella vita e sul lavoro, come gli Sms o i messaggi Whatsapp, Telegram e così via? L’evoluzione tecnologica delle comunicazioni ci pone di fronte a problemi sempre nuovi, come quello affrontato dalla Cassazione- Sezione II Penale, nella sentenza n. 25549 del 28 giugno 2024. Il pronunciamento -e il suo impianto argomentativo- appare particolarmente interessante, dicevamo, anche nei contesti lavorativi e nella vita quotidiana delle imprese: pensiamo solo a quanti provvedimenti disciplinari, che arrivano addirittura al licenziamento, siano più o meno velatamente motivati dal fatto che il datore o i superiori siano venuti a conoscenza (autonomamente o per via di “soffiate” mirate) di opinioni, posizioni o esternazioni scambiate appunto via messaggio.

Cosa si “annida” nei messaggi privati?

Ma pensiamo anche a quante volte questi messaggi contengono espressioni più o meno ingiuriose, offensive, aggressive, turpiloqui ecc. O anche a quanto spesso nei messaggi siano contenuti elementi potenzialmente incriminanti, comunicazioni riservate che, astrattamente, potrebbero rappresentare elementi idonei a provvedimenti anche gravi. Ora, questo tipo di corrispondenza -beninteso, ragioniamo di corrispondenza privata e non di profili diffamatori (ad esempio offese o minacce su gruppi aperti, ecc.)- può essere “violata” e venire acquisita come elemento di prova?

Anche la corrispondenza digitale è protetta

Ebbene, no. Anche la corrispondenza “digitale” è da considerarsi privata e garantita, salvo provvedimento espresso dell’Autorità Giudiziaria: la Suprema Corte si è infatti espressa con chiarezza dichiarando l’inammissibilità delle prove costituite da messaggi rimasti in memoria nel cellulare, nel caso di specie acquisite impropriamente dalla Polizia Giudiziaria nell’ambito dell’attività istruttoria che ha portato a un’incriminazione per produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti. 

Il principio sancito dalla Corte

In sostanza gli Ermellini hanno sancito il principio di diritto secondo cui in tema di mezzi di prova, i messaggi whatsapp e gli Sms conservati nella memoria di un telefono cellulare conservano la natura di “corrispondenza” anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo o per altra causa, essi non abbiano perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla riservatezza, trasformandosi in un mero “documento storico”. Dal che -fino a quel momento- la loro acquisizione deve avvenire secondo le coordinate costituzionali in tema di sequestro della corrispondenza: esattamente come le lettere cartacee e i biglietti chiusi. Il secondo comma dell’articolo 15 Cost., infatti, così completa il primo: “La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Il che significa, fuor di giuridichese, che l’acquisizione di tali messaggi deve avvenire secondo le forme previste dall’art. 254 del Codice di Procedura penale rubricato appunto “Sequestro di corrispondenza”.

La corretta procedura di acquisizione

Tale articolo, in ossequio alle garanzie apprestate dall’art. 15 della Costituzione, dispone sostanzialmente che il sequestro della corrispondenza avvenga su disposizione ovvero sotto il controllo dell’Autorità Giudiziaria, stabilendo che “quando al sequestro procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questi deve consegnare all’autorità giudiziaria gli oggetti di corrispondenza sequestrati, senza aprirli o alterarli e senza prendere altrimenti conoscenza del loro contenuto”.

I “paletti” della norma

La norma, in buona sostanza, vieta alla polizia giudiziaria di avere accesso al contenuto dei messaggi e consente il sequestro del loro “contenitore” (sia esso un plico cartaceo ovvero il dispositivo elettronico che contiene messaggi trasmessi in forma telematica) che deve essere consegnato all’autorità giudiziaria, unica legittimata a verificarne il contenuto, senza che la polizia giudiziaria possa accedervi di propria iniziativa. Attenzione, dunque, all’uso che si fa di eventuali messaggi privati di dipendenti o collaboratori di cui si venga, più o meno accidentalmente, a conoscenza: per quanto possano irritare o preoccupare, non possono in alcun modo essere utilizzati senza il consenso e l’intervento dell’AG.

Link sentenza 25549 del 28 giugno 2024

Link art. 254 Cpp

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