I recenti pronunciamenti della Corte di Cassazione sul tema dell’inadempimento lavorativo in relazione con i principi di buona fede del dipendente (e di correttezza datoriale) inducono a riflettere più approfonditamente su una fattispecie molto frequente nella quotidianità delle imprese di pulizia/ multiservizi/ servizi integrati, ad alto contenuto di manodopera e impegnate su diversi cantieri a volte distanti, più o meno scomodi da raggiungere e, ovviamente, più o meno “graditi” agli operatori: ci riferiamo alle ipotesi di “trasferimento sgradito”, una delle principali cause di malcontento dei dipendenti, spesso con strascichi interminabili di contenziosi.
Capita spesso, in effetti, che un dipendente si rifiuti di prendere servizio in questo o quell’altro cantiere, dopo un trasferimento che egli ritiene illegittimo in quanto non supportato da adeguate motivazioni, ritorsivo o quant’altro. Ebbene, cosa accade in questo caso? La risposta, stando ai pronunciamenti giurisprudenziali più recenti e significativi, è che si apre una sorta di “doppio canale”: da un lato il dipendente è autorizzato a chiedere l’accertamento della legittimità del trasferimento anche per vie giudiziali (del resto l’art. 24 della nostra Costituzione stabilisce con chiarezza che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”); dall’altro, tuttavia, non è legittimato automaticamente a rifiutare in via aprioristica la prestazione, poiché secondo il Codice civile è tenuto ad adempiere all’obbligazione del fare nei confronti del datore, almeno fino a diverso pronunciamento giudiziario – che in tali casi è ottenibile anche con rito d’urgenza. Qui entra poi in gioco il principio della “buona fede” sancito sempre dalla disciplina civilistica (art. 1460 cc): solo in caso di totale inadempimento del datore il dipendente può a propria volta legittimare il proprio.
Il principio generale, dunque, è che il dipendente non possa interrompere la prestazione lavorativa ma al limite possa rivolgersi al tribunale per far accertare l’illegittimità del comportamento datoriale. Spetterà poi al giudice valutare le esigenze delle parti e la buona fede del lavoratore nel rifiutare di adempiere alla propria obbligazione.
Tanto premesso, vanno poi analizzati i vari pronunciamenti sull’argomento. La sentenza di Cassazione n. 26197 del 6/9/22 porta in luce il tema del rifiuto al trasferimento del dipendente che ritiene lo stesso illegittimo. In particolare, la Corte evidenzia il consolidato orientamento per cui qualora sia contestato un comportamento, quale il rifiuto di rendere la prestazione, e sulla scorta dello stesso sia poi comminato il licenziamento, la legittimità dell’azione datoriale alla richiesta di trasferimento appare dirimente. In tale situazione, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell’illiceità, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata (ex cd “Statuto Lavoratori”, legge 300/1970).
Sempre al 2022 risale l’Ordinanza 4404 del 10 febbraio, con cui la Cassazione afferma che il rifiuto al trasferimento costituisce giusta causa di licenziamento se viola il principio della buona fede e della correttezza da parte del lavoratore, anche se risulta che il trasferimento medesimo è illegittimo. Ecco un caso di scuola da art. 1460 cc.
Al 2021 si ascrivono almeno altri due casi degni di menzione: con sentenza n. 712 del 23 febbraio di quell’anno la Corte d’Appello di Roma ha stabilito che il rifiuto di prendere servizio nella nuova sede non può essere ritenuto automaticamente proporzionale all’inadempimento datoriale ex art. 2103 cc (può essere ad esempio il caso di trasferimento con dimensionamento, e/o non supportato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive); dal canto suo la Cassazione, Ord. 28923 del 19/10/21, pronunciandosi su un caso di rifiuto per iscritto di lavorare nella sede di nuova assegnazione, richiama anch’essa l’art. 2103 determinando la nullità del provvedimento di trasferimento adottato in violazione delle disposizioni civilistiche nonché delle obbligazioni assunte in sede sindacale, giustificando l’inadempimento del dipendente quale riflesso della nullità dell’atto originario.
Cassazione ordinanza 4404_2022