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Malattia causata dall’azienda

Torniamo ancora una vola sul tema del comporto, ovvero il periodo di assenza per malattia o infortunio, previsto dalla contrattazione collettiva, durante il quale il lavoratore mantiene il diritto alla conservazione del posto. Una recente pronuncia del Tribunale di Busto Arsizio (Va), datata 5 febbraio 2021, contribuisce a far luce su un aspetto degno di interesse. In pratica il giudice del lavoro bustocco ha stabilito che per il calcolo del comporto non rilevi la malattia causata da condotta aziendale; rientrano in questa ipotesi anche le malattie che non sono comunicate al medico aziendale o denunciate all’Inail, qualora sia possibile, in via presuntiva, collegarle a una condotta del datore di lavoro.

Al centro del caso affrontato, il licenziamento irrogato a un dipendente di una società di servizi già affetto da patologia certificata. Proprio su questo si è basata l’architettura difensiva, che ha portato il giudice ad imputare al datore il fatto “di aver ritardato nell’adottare misure a tutela della salute del dipendente e di aver in tal modo contribuito causalmente all’aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore e quindi, quantomeno, a talune delle sue assenze per malattia”. In pratica, pur conoscendo la patologia e l’impossibilità di svolgere alcune mansioni, l’azienda non ne avrebbe tenuto conto all’atto dell’attribuzione del mansionario, con ciò “causando” diverse assenze.

Nel caso in esame, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio, può ritenersi dimostrato, quanto meno in termini di probabilità, che sussiste un nesso causale fra l’attività lavorativa e la malattia (che presenta una eziologia multifattoriale). L’esercizio dell’iniziativa economica privata, garantito dall’art. 41 Cost., deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro (art. 4, 35, 36 cost.) ed alla salute (art. 32 Cost., 2087 c.c.). Il lavoratore dunque, secondo il giudice, doveva essere destinato a mansioni rispettose del suo stato di salute idonee a non aggravare la patologia certificata.

“Ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e morale dei lavoratori, rispettando non solo le specifiche norme prescritte dall’ordinamento in relazione al tipo specifico di attività imprenditoriale e lavorativa, ma anche quelle che si rivelino necessarie in base alla particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica. La previsione dell’obbligo contrattuale di sicure comporta che al lavoratore è sufficiente provare il danno ed il nesso causale, spettando all’imprenditore di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno.”

Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, qualora venga accertato che l’infermità del dipendente sia causata dalla nocività delle mansioni assegnate o dell’ambiente di lavoro o da comportamenti di cui il datore di lavoro sia responsabile, la relativa assenza – risultando detratta dal computo del periodo di comporto – non consentirebbe il recesso del datore di lavoro anche una volta che questo sia stato superato.

In sostanza, secondo il principio richiamato in sentenza la società, alla luce dei doveri civilistici, avrebbe dovuto tempestivamente adibire il dipendente a mansioni tali da escludere, anche in via saltuaria, lo svolgimento di attività pericolose per la sua salute. Si tratta di un principio che, se da un lato va giustamente a tutela del sacrosanto valore della sicurezza sul lavoro, dall’altro può rendere discutibile moltissimi licenziamenti di questo tipo. Senza contare le difficoltà che a volte si incontrano nel trovare mansioni adeguate ed altrettanto funzionali all’attività dell’impresa, specie in settori ad altissimo contenuto di manodopera come quello della pulizia/ servizi integrati/ multiservizi.

TRIBUNALE DI BUSTO ARSIZIO – SENTENZA DEL 5 FEBBRAIO 2021 (PDF)

 

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