Con sentenza n. 150/2020 pubblicata lo scorso 16 luglio, la Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 4 del D.Lgs. 23/2015, laddove, in ipotesi di licenziamenti affetti da vizi formali e procedurali, affermava che l’indennità dovuta al lavoratore – assunto successivamente al 05.03.2015 da qualunque datore a prescindere dal requisito dimensionale dello stesso – era di “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
A tale conclusione la Corte è giunta in quanto la disposizione considerata illegittima fissava un “criterio rigido e automatico, legato al solo elemento dell’anzianità di servizio”. Una linea già assunta nel 2018, quando con la pronuncia n. 94 la Corte aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. In particolare, in quella circostanza, la Consulta aveva ritenuto non consono un criterio di commisurazione dell’indennità, prevista dal c.d. Jobs Act in caso di licenziamento sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo, automaticamente ed unicamente legato all’anzianità di servizio. Nello specifico la predetta pronuncia aveva statuito che il giudice deve poter determinare in modo discrezionale tale indennizzo, tenendo conto, senza parametri rigidi, di altri elementi quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.
Nel caso che ha portato alla pronuncia di pochi giorni fa, Tribunale di Bari e quello di Roma – nel corso di procedimenti inerenti all’impugnativa giudiziale di licenziamenti irrogati a lavoratori assunti con il c.d. contratto a tutele crescenti – avevano sollevato una questione di legittimità costituzionale sull’art. 4 del D.Lgs. 23/2015, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 24 e 35, primo comma, della Costituzione. Ora, per i Giudici il rispetto della forma e della procedura nelle procedure di licenziamento è riconducibile al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost., che impone al legislatore di circondare di doverose garanzie e di opportuni temperamenti il recesso datoriale.
Secondo la sentenza, la disciplina introdotta dal Jobs Act non attua un equilibrato contemperamento tra i diversi interessi in gioco, tanto da potersi considerare lesiva dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza. L’anzianità di servizio, svincolata da ogni criterio correttivo, è, infatti, inidonea ad esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare.
Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianità di servizio, ma deve, quantomeno, tenere in considerazione ulteriori fattori. Per la Consulta, nell’appiattire la valutazione del giudice sulla verifica della sola anzianità di servizio, la disposizione in esame determina un’indebita omologazione di situazioni che, nell’esperienza concreta, sono profondamente diverse e, così, entra in conflitto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza. Con la conseguenza che la “palla” passa di nuovo al Giudica, e che di fatto l’impianto originario del Jobs Act risulta ulteriormente depotenziato.