Il caso è, purtroppo, piuttosto frequente nella imprese di pulizia/ servizi integrati/ multiservizi. Il dipendente sta a casa in malattia e, proprio in quei giorni, viene “pizzicato” a lavorare da un’altra parte. Licenziamento per giusta causa? E se non è giusta causa questa, risponderà la maggior parte dei datori.
Eppure non sempre è così, e a dimostrarlo ci ha pensato la Cassazione, che in due pronunce pubblicate entrambe il giorno 4 luglio (la circostanza è davvero singolare) ha preso decisioni opposte su fatti analoghi. In particolare ci riferiamo alla nella sentenza n. 17514 e nell’ordinanza n. 17424.
Nel primo caso un autista di pullman è stato scoperto, durante una lunga malattia, a lavorare presso un garage privato, con testimonianze anche fotografiche. Per i giudici il licenziamento è valido: infatti la tipologia di lavoro, e il fatto che il dipendente non indicasse il collare cervicale prescrittogli dal medico, erano indici di per sé sufficienti per dimostrare condizioni di salute non compatibili con lo stato di malattia.
Si legge fra l’altro: “In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro.”
Nel secondo caso parliamo di un lavoratore assente per gastroenterite trovato, durante i giorni di malattia, intento a lavori di tinteggiatura di esterni. Stavolta, però, gli Ermellini hanno optato per la soluzione opposta, non convalidando il recesso: infatti per i giudici lo svolgimento di un’altra attività durante l’assenza per malattia non è di per sé sufficiente ad integrare un illecito disciplinare, in quanto “non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare — durante tale assenza — attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera. Pertanto non si configura giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l’assenza con altre imprese concorrenti (con quella cui è contrattualmente legato) oppure — anziché collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa — abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trarne un reddito dal lavoro diverso in costanza di malattia ed in danno del proprio datore di lavoro”.
Morale: anche quando sembra ovvio poter ricorrere al licenziamento del lavoratore infedele, occorre comunque prestare attenzione.
A volte il dettaglio, ma soprattutto la sensibilità dei giudici, possono fare la differenza.