Che cos’è lo “straining”? Anche se il termine non è ancora usatissimo, c’è da scommettere che ne sentiremo parlare sempre di più. Lo straining, infatti, è una forma attenuata di mobbing, non grave e continuativa come il suo più noto “fratello”, ma abbastanza seria di giustificare, secondo la Cassazione, un risarcimento da parte datoriale a favore del dipendente-vittima. A queste conclusioni giunge la Suprema corte con l’Ordinanza n. 7488 depositata il 29 marzo 2018. La questione interessa molto le nostre imprese perché laddove è alto il “peso” della manodopera, che lavora fianco a fianco per molto tempo, si creano spesso i presupposti per questo tipo di situazioni.
Per straining si intende in generale un’azione ostile o discriminatoria solitamente compiuta da un superiore nei confronti di un subalterno, per es. il demansionamento, l’isolamento o la sottrazione degli strumenti di lavoro, i cui effetti si prolungano nel tempo (ma senza essere continuativi come nel mobbing) producendo stress e sofferenza psichica in chi la subisce.
Il pronunciamento in oggetto, in particolare, riguarda un dipendente oggetto di comportamenti frustranti quali stress forzato, invio di lettere di scherno nella sede di lavoro, azioni ostili: “I giudici di merito –si legge- hanno adeguatamente motivato sulla situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, nonché dall’invio di lettere di scherno diffuse in ambiente lavorativo, in cui il lavoratore avrebbe subito azioni ostili anche se limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo (quindi non rientranti, tout court, nei parametri del mobbing) ma tali da provocare in lui una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio”.
Alla luce di ciò, al datore di lavoro viene imputato di non aver provveduto a evitare questa situazione, e pertanto viene confermato il diritto del lavoratore al risarcimento datoriale del danno, non patrimoniale, inteso come “lesione del diritto al normale svolgimento della vita lavorativa e alla libera e piena esplicazione della propria personalità sul logo di lavoro”. Attenzione dunque a vigilare su comportamenti anomali dei dipendenti, situazioni di tensione o di prevaricazione più o meno latente. Meglio correre ai ripari prima, magari con opportuni cambiamenti organizzativi.