Non è lecito trasferire unilateralmente da una sede di lavoro a un’altra il lavoratore che assiste un familiare sulla base dell’art. 33 della Legge 104/1992, e ciò vale anche se il trasferimento non comporta la necessità di spostamento a una nuova unità produttiva (o, nel nostro caso, ad un nuovo cantiere). E’ questo il principio-cardine fissato dalla sentenza 24015/2017 della Corte di Cassazione, emessa lo scorso 12 ottobre.
Il caso riguarda un lavoratore addetto alle mense carcerarie che, a seguito di un trasferimento -con mansioni equivalenti- in una sede non lontana dalla precedente, ma più disagevole nell’ottica dell’assistenza di una parente disabile, si era assentato dal lavoro finendo oggetto di un provvedimento di licenziamento. Recesso confermato, peraltro, dai primi due gradi di giudizio, secondo cui il rifiuto del lavoratore di svolgere la prestazione lavorativa presso la nuova sede era ingiustificata perché la nuova sede di lavoro si trovava a pochi chilometri di distanza dalla originaria sede di lavoro e dalla abitazione del lavoro del medesimo, le mansioni erano equivalenti, l’orario di lavoro assegnato non era incompatibile con le esigenze del lavoratore di assicurare l’assistenza alla familiare disabile; inoltre, secondo l’Appello, la sanzione risolutiva era proporzionata alla condotta addebitata perché costituiva violazione dei doveri fondamentali che incombono sul lavoratore, il quale avrebbe potuto contestare la legittimità del trasferimento nelle more dell’adempimento della prestazione lavorativa presso la nuova sede di lavoro.
La Suprema corte, tuttavia, ha ribaltato il verdetto sulla base del più ampio principio secondo cui sulle esigenze aziendali prevalgono comunque quelle di tutela delle persone con disabilità. Il dettato di legge, peraltro, parla molto chiaro: il comma 5 dell’art. 33 della citata 104/92, recita infatti testualmente: “Il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.
Secondo gli Ermellini, “la disposizione dell’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, laddove vieta dì trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati – alla luce dell’art. 3, secondo comma, Cost., e della Carta di Nizza che, al capo 3 – rubricato Uguaglianza – riconosce e rispetta i diritti dei disabili di beneficiare di misure intese a garantire l’autonomia, l’inserimento sociale e la partecipazione alla vita della comunità (art. 26) e al capo 4 – rubricato Solidarietà – tratta della protezione della salute, per la quale si afferma che nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un alto livello di protezione della salute umana. Principi a cui anche il legislatore italiano ha dedicato ampio riguardo.
Conclude la Cassazione: “La ricostruzione del quadro normativo nazionale e sovranazionale e dei principi giurisprudenziali sopra richiamati induce a ritenere che nel necessario bilanciamento di interessi e di diritti del lavoratore e del datore di lavoro, aventi ciascuno copertura costituzionale, dovranno essere valorizzate le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile del lavoratore, occorrendo salvaguardare condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui la persona con disabilità si trova inserita ed evitando riflessi pregiudizievoli dal trasferimento del congiunto ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte (Cass. 25379/2016, 9201/2012). In questa prospettiva applicativa, deve ritenersi che il trasferimento del lavoratore di cui al c. 5 dell’art. 33 L n. 104 del 1992 è configurabile anche nell’ipotesi in cui lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, quando questa comprenda uffici dislocati in luoghi div’ersi. Il dato testuale contenuto nella norma, che fa riferimento alla sede di lavoro, non consente, infatti, di ritenere che questa corrisponda alla unità produttiva alla quale fa, invece, riferimento l’art. 2103 c.c. (Cass. 24775/2013)”. Alla luce di queste considerazioni, la Suprema corte ha dichiarato illegittimo il pronunciamento della Corte territoriale.
Inutile aggiungere che il caso riguarda molto da vicino anche il settore delle pulizie/servizi integrati/multiservizi, vista l’alta incidenza della manodopera e l’alto numero di lavoratori che ricadono nei casi previsti dalla legge 104. Attenzione dunque ai trasferimenti unilaterali: sono illegittimi e il dipendente che rifiutasse di svolgerle le proprie mansioni nella nuova sede, anche con metodi poco “ortodossi” come il semplice non presentarsi al lavoro, andrebbe reintegrato.
Link sentenza Cassazione 12 ottobre 2017