Torniamo sulla spinosa questione del controllo dei dipendenti sul luogo di lavoro (molto sentita dalle imprese, in quanto si trovano spesso ad operare in contesti “videosorvegliati” e non sanno come comportarsi), perché in data 1 giugno 2016 il Ministero del Lavoro – Direzione generale per l’attività ispettiva, ha emesso un parere molto importante che ribadisce il “no” alla sorveglianza non autorizzata e ricorda le sanzioni in cui si incorre in caso di violazione della legge.
La diatriba nasce dal fatto che, come abbiamo avuto modo di ricordare nei mesi scorsi, il Decreto legislativo 151 del 14 settembre 2015 (uno degli attuativi del Jobs Act, come si ricorderà), aveva abolito il divieto assoluto di utilizzo degli impianti audiovisivi prima previsto dallo Statuto dei lavoratori del 1970.
Infatti, se prima la l. 300/70, all’ art. 4, recitava: “È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, dopo le modifiche introdotte dall’ art. 23, co. 1, del d.lgs. n. 151/2015, il testo suona così: “Gli impianti di audiovisione e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali”.
In seguito a tale intervento legislativo si è scatenato un vespaio di dubbi, richieste e polemiche in proposito. Molti datori di lavoro, anche nel nostro settore, si chiedevano se e in quale misura si potesse verificare l’operato dei dipendenti sul lavoro. Una questione che interessa molto da vicino le imprese, poiché queste ultime, come si sa, si trovano molto spesso ad operare in contesti in cui la committenza ha attivato sistemi di videosorveglianza. Ora, cerchiamo di capirci di più: le finalità della videosorveglianza sono determinate dal novellato articolo 4 di cui sopra in tre ambiti: organizzazione del lavoro (esigenze organizzative e produttive); esigenze di sicurezza sul lavoro; esigenze di tutela del patrimonio aziendale. Ora, se il primo punto (organizzazione del lavoro) coinvolge soltanto la committenza e i suoi dipendenti, lo stesso non può dirsi per gli ultimi due, che riguardano anche i dipendenti dell’impresa di servizi presenti e operanti negli spazi della committenza. E se questi ultimi, o le loro rappresentanze, non avessero dato il consenso? Il problema c’è, e bisogna fare attenzione. Un modo per risolverlo potrebbe essere quello di acquisire “a monte” il consenso dei dipendenti impiegati in ambienti videosorvegliati, trasmettendo al committente tale consenso. Ad esempio, se io so di avere 80 operatori che lavorano in un’industria, una clinica o qualsiasi altro committente che ha attivi (o semplicemente installati) sistemi di videosorveglianza, dovrò prima acquisire il loro consenso, poi trasmetterlo alla committenza. La questione è molto spinosa, e rischia di creare non pochi problemi nei rapporti fra impresa e committenza.
Tutto ciò, come dicevamo, vale anche se l’impianto non è in funzione: in tal senso il Ministero del Lavoro, con Parere in nota 11241 del 1 giugno scorso, ha chiarito che non è possibile in alcun modo effettuare una sorveglianza non autorizzata, e ha ricordato le pesanti sanzioni in cui si incorre in caso contrario. “Anche nella sua nuova formulazione –ricorda il Ministero- l’articolo 4 della legge citata prevede che l’installazione di un impianto di videosorveglianza non possa avvenire antecedentemente a (e quindi in assenza di) uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali o, in mancanza di esso, alla intervenuta autorizzazione rilasciata da parte della Direzione del Lavoro territorialmente competente.” E attenzione: non importa se le apparecchiature siano solo istallate e non ancora funzionanti. Il testo prosegue infatti: “La violazione della previsione dell’art. 4 non è esclusa dalla circostanza che tali apparecchiature siano solo installate ma non ancora funzionanti, né dall’eventuale preavviso dato ai lavoratori, né infine dal fatto che il controllo sia discontinuo perché esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente (Cass. 6 marzo 1986, n. 1490, in Not. Giur. Lav., 1986, 155; Cass. 921/97).
In tal senso, nel corso degli ultimi anni, si registrano diverse sentenze che confermano il divieto di installazione di tali impianti in difetto dei presupposti previsti dall’art. 4 della legge n. 300/1970, anche nel caso di telecamere “finte” montate a scopo esclusivamente dissuasivo.
La condotta criminosa è rappresentata dalla mera installazione non autorizzata dell’impianto, a prescindere dal suo effettivo utilizzo (Cass. Penale n. 4331/2014; “l’idoneità degli impianti a ledere il bene giuridico protetto, cioè il diritto alla riservatezza dei lavoratori, necessaria affinché il reato sussista … è sufficiente anche se l’impianto non è messo in funzione, poiché, configurandosi come un reato di pericolo, la norma sanziona a priori l’installazione, prescindendo dal suo utilizzo o meno”).
La stessa Autorità Garante della Privacy ha ribadito più volte che non è legittimo provvedere all’installazione di un impianto di video-sorveglianza senza che sia intervenuto il relativo accordo con le rappresentanze sindacali o, in subordine, senza l’autorizzazione rilasciata dalla Direzione Territoriale del Lavoro.
Il legislatore ha previsto in maniera chiara che il mancato rispetto della norma in materia di video-sorveglianza è punito con ammenda da € 154 a € 1.549 o arresto da 15 giorni ad un anno (art. 38 della legge n. 300/1970), salvo che il fatto non costituisca reato più grave.
Pertanto, qualora nel corso dell’attività ispettiva, l’ispettore riscontri l’installazione di impianti audiovisivi in assenza di uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali ovvero in assenza dell’autorizzazione rilasciata da parte della Direzione del Lavoro territorialmente competente, deve impartire una prescrizione, ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 758/1994, al fine di porre rimedio all’irregolarità riscontrata mediante l’immediata cessazione della condotta libera illecita e la rimozione materiale degli impianti audiovisivi, essendo tale adempimento l’unico idoneo ad “eliminare la contravvenzione accertata”.
Per eliminare la contravvenzione accertata, l’organo di vigilanza, nel verbale di prescrizione, deve fissare per la regolarizzazione un termine non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario.
Pertanto, trattandosi di apparecchiature per la cui rimozione è necessario l’intervento di personale specializzato, si evidenzia che il tempo da assegnare dovrà essere congruo.
Qualora nel periodo di tempo fissato dall’organo di vigilanza venga siglato l’accordo sindacale ovvero venga rilasciata l’autorizzazione della competente Direzione Territoriale del Lavoro, venendo meno i presupposti oggettivi dell’illecito, l’ispettore può ammettere “il contravventore a pagare in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilità per la contravvenzione commessa” (art. 21 d.lgs. n. 758/1994).
Link Ministero del lavoro su videosorveglianza pdf