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Imprese di famiglia: due terzi non sopravvivono alla seconda generazione

Un libro da leggere tutto d’un fiato, ma da meditare una vita. Il bellissimo “L’ho fatto per voi. La convivenza fra generazioni nell’impresa di famiglia” di Franco Cesaro (Guerini Next, edizione dicembre 2015, 168 pagine, 17 euro) raccoglie una casistica di oltre trent’anni per cercare di rispondere a una semplice domanda: perché due terzi di imprese familiari non sopravvivono alla seconda generazione, e solo nove su cento sopravvive alla terza?

Pagina dopo pagina, a partire dalla prefazione di Mihàly Csìkszentmihàly e grazie agli interventi di Leone Barbieri, Pier Luigi Celli, Domenico De Masi, Paolo Inghilleri, Paolo Rumiz, Fulvio Scaparro e Giuseppe Varchetta, si cerca di dare una risposta plausibile, anche se -è subito Cesaro a metterci in guardia- la ricetta universale non esiste.

Non si stratta, “banalmente” di passaggio generazionale, ma di convivenza di due (o, a volte, anche più) generazioni sotto lo stesso tetto, o meglio, sotto la stessa insegna aziendale. Perché se il passaggio è improvviso e traumatico è, tutto sommato, meno complesso da gestire (o ci si rimbocca le maniche o si vende tutto), i veri problemi arrivano quando due generazioni che spesso non si capiscono (quella dei padri “baby sitter” e dei figli “badanti”, dice l’autore) devono cercare di convivere. Ecco allora che riemergono le incomprensioni ben sottolineate dal titolo: “Tutto questo l’ho fatto per te, o per voi”, una delle frasi ricorrenti che i padri pronunciano rivolti ai figli, generando in questi ultimi violenti sensi di colpa. Occorre sì cambiare, ma come? Quali sono gli esiti possibili di un cambiamento? Come far sì che il mercato, che nel frattempo ha mutato le sue esigenze e i suoi scenari di riferimento, risponda ancora con profitto? Come rendere tuttora valida una scommessa partita magari cinquanta o sessant’anni fa, quando tutto era diverso, a partire dalle esigenze dei clienti?

Fra drammi, tragedie ed esperienza dagli esiti felici, il vissuto umano e professionale di Cesaro -che, lo ricordiamo, per tre decenni è stato al fianco di generazioni di imprenditori in tutta Italia, con particolare specializzazione proprio per le dinamiche delle imprese familiari- si ricombina in un viaggio ad alta intensità narrativa ed emotiva, che ci prende per mano e ci conduce nelle stanze segrete di generazioni di piccoli imprenditori in conflitto, mostrandoci esempi di vita e di impresa. “Una storia si dice, si narra e con il narrare si va a ripescare nell’archivio degli eventi, si impone un significato sul flusso della memoria”.

Uno dopo l’altro, si snodano i capitoli. Che sono poi tante narrazioni unite, appunto, dal filo dei ricordi. Storie vere di vita vissuta, esempi che arrivano dal vero cuore pulsante dell’imprenditoria italiana, quell’imprenditoria familiare che, piccola o grande che sia, in salute o in crisi che sia, rappresenta il vero patrimonio inestimabile del nostro tessuto economico. Dopo le presentazioni e le premesse, si entra nel vivo con un commovente “ricordo di mio padre” (Frammenti di memoria). La trattazione vera e propria è organizzata in quattro sezioni, che trattano ognuna un tema-chiave: l’imprenditore, la famiglia, il rapporto tra azienda, mercato e territorio e le “Storie di convivenza” tra generazioni. Si chiude con una sintesi conclusiva e con la deliziosa sezione “Le storie del Mulino”, con racconti e pensieri di Cesaro raccolti da Noemi Boggero. Postfazione di Fabio Romano.

A fare da condimento, la cultura, raffinata ma mai invadente, con cui Cesaro conduce i giochi, senza timore di scomodare i grandi del pensiero, i maestri dell’arte e della poesia, i filosofi e i cantautori, dalla Grecia classica all’idealismo ottocentesco, da Diogene a Lucrezio, da Amiel a Gibran, da Foscolo a De Gregori. Senza dimenticare la cara vecchia saggezza popolare del primo imprenditore che reclutò Cesaro per una questione di passaggio di testimone in azienda: “Piuttosto che lasarghe l’asienda a quel mona de me fiòlo, la bruso”. Vale a dire: “Piuttosto che lasciare l’azienda a quel deficiente di mio figlio, le do fuoco”. Alla faccia del dialogo intergenerazionale.

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