Le dimissioni online, che stanno per diventare pienamente operative, potrebbero costare caro alle imprese. Vediamo perché. Come abbiamo già detto, dal 12 marzo è attiva la procedura introdotta dal D.Lgs 151/2015 sulle dimissioni online: in pratica non saranno più ritenute valide dimissioni rassegnate senza ricorrere alla nuova prassi telematica. La ratio, condivisibile, è quella di scongiurare la malaprassi delle dimissioni imposte (le famose “dimissioni in bianco che molti datori, diciamolo, facevano firmare già all’atto dell’assunzione “per ogni evenienza”: un ricattino tutto italiano). Una ragione nobile, certamente. Ma qui cominciano i “però”: già in precedenza abbiamo avuto già modo di sottolineare come per imprese e lavoratori si tratti di una procedura estremamente “appesantita” e per nulla immediata dal punto di vista burocratico.
Infatti, come stabilito l’ 11 gennaio dal Decreto Ministeriale del 15 dicembre 2015, per poter comunicare le proprie dimissioni (o la risoluzione consensuale), il lavoratore dovrà registrarsi sul portale Cliclavoro e richiedere il PIN INPS o, in alternativa, avvalersi di un soggetto abilitato, come ad esempio CAF, patronati, sindacati ecc., poi compilare il modello online tramite il portale lavoro.gov.it, che sarà trasmesso automaticamente dal Ministero al datore di lavoro e alle Direzioni Territoriali del Lavoro competenti. Una procedura davvero complicata specie per chi, come è frequente nel caso del personale delle imprese, ha scarsa dimestichezza con i mezzi informatici o non ha a disposizione internet in modo agevole.
Ma non è tutto: come sottolineato di recente da alcuni organi di stampa (su tutti il Corriere della Sera del 2 marzo scorso, p. 31 Economia), c’è un rischio più concreto. Che fare con i lavoratori che spariscono senza nessun preavviso, cosa che sappiamo accadere piuttosto spesso nelle imprese di pulizia/servizi integrati/multiservizi, che oltretutto sono in un settore labour intensive? Se si considera che ogni anno in Italia si dimettono circa 1,4 milioni di lavoratori, e che il 5% di questi scompaiono senza preavviso (cioè circa 70mila casi), i conti sono presto fatti. Siccome senza la compilazione dell’apposito modulo le dimissioni non sono valide, il datore è costretto al licenziamento per giusta causa, il che non è certo gratuito. In tale caso, infatti, si incorre nell’obbligo di pagare il cosiddetto “ticket licenziamento”, poiché la dimissione si tramuta in licenziamento effettivo. E la Naspi (o ticket licenziamento), come sappiamo bene, significa soldi: fino a 1.500 euro circa per un’anzianità pari a tre anni. Calcolatrice alla mano parliamo di 105 milioni di euro all’anno di esborso potenziale stimato a carico delle imprese, e scusate se è poco.