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Licenziamenti disciplinari: Cassazione, importante novità

Una recente sentenza della Cassazione, dunque, ribalta i precedenti orientamenti ridimensionando la discrezionalità dei giudici nelle cause di licenziamento per motivi disciplinari. Se prima si entrava nel merito dell’effettiva gravità del comportamento scorretto, e della sua proporzionalità con la sanzione del licenziamento, e molto spesso si arrivava al reintegro, oggi per confermare il licenziamento è sufficiente dimostrare che il fatto sia stato effettivamente compiuto. Il reintegro, insomma, avviene solo se il fatto non risulta commesso, quindi non sussiste. Un cambiamento importante.

Come è noto, la cosiddetta “riforma Fornero” (legge 92/2012) è intervenuta a modifica dell’articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori (legge 300/1970), che prevede ora due distinti tipi di tutela per il lavoratore licenziato: tutela reale, con reintegro nel posto di lavoro (oltre al pagamento degli stipendi mensili non versati nel frattempo, fino a 12 mensilità), nel caso in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, perché il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso ovvero perché rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base dei contratti collettivi applicabili; una tutela risarcitoria, nelle altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa. In quest’ultimo caso il lavoratore va risarcito con 12-24 mensilità, e si parla appunto di indennizzo senza reintegro. In pratica il reintegro nel posto di lavoro non è più la diretta e automatica conseguenza dell’accertamento dell’insussistenza di motivi di licenziamento oggettivi. Se si accerta la sussistenza del fatto materiale che sta alla base del licenziamento, prevale il regime risarcitorio, mentre solo nei casi più gravi di illegittimità è applicabile la tutela reintegratoria, che obbliga il datore di lavoro a riattivare il rapporto di lavoro.

Non sono mancati, a tale proposito, diversi orientamenti giurisprudenziali: come valutare il fatto contestato? Come accertarlo? Solo nella sua componente materiale (cioè se il fatto è stato commesso oppure no) o anche sul piano giuridico (se il fatto, cioè, è idoneo a configurare la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo)? La cosiddetta “teoria del fatto giuridico”, infatti, prevede la valutazione della gravità del fatto rispetto alla sanzione irrogata. Ora però la Suprema corte si è espressa con chiarezza, e proprio questo orientamento “proporzionalistico” è stato decisamente sconfessato dai giudici di Cassazione. La sentenza 6 novembre 2014 n. 23669 ha chiarito che la reintegrazione nel caso dei licenziamenti illegittimi di natura disciplinare si applica soltanto se il fatto che sta alla base del licenziamento stesso materialmente non sussiste, escludendo che si debba procedere con la valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.

In sostanza: se si dimostra la sussistenza materiale del fatto, resta il licenziamento indipendentemente dall’accertamento della gravità del fatto stesso o della sua proporzionalità rispetto alla risoluzione del rapporto di lavoro. In parole ancora più semplici: il dipendente non può dire “sì, l’ho commesso, ma non si trattava di un comportamento tanto grave da giustificare il licenziamento”. Nel caso in cui il fatto materiale sia avvenuto (e ovviamente dimostrato in sede processuale), il licenziamento è valido e al dipendente resta solo l’indennizzo risarcitorio (economico). L’unico caso in cui si può legittimamente chiedere il reintegro, stando all’orientamento della Cassazione, è se il fatto non sia stato commesso o non sussista (o non si riesca a dimostrare efficacemente la sua esistenza) o rientri tra le condotte punibili con sanzione conservativa sulla base dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari. In tal modo la Suprema Corte ha drasticamente ridotto i margini di discrezionalità interpretativa da parte del giudice.

Dice infatti la sentenza: “Il nuovo articolo 18 ha tenuto distinta, invero dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e sì esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”.

Sentenza 23669

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