(Tratto da “GSA Igiene Urbana” n.3, Luglio-Settembre 2008)
Continua incessante il “viaggio” ideale di Guido Viale tra le infinite pagine della letteratura del mondo: questa volta ci conduce tra i ricordi dello scrittore modenese Ugo Cornia, ricordi che guarda caso vanno anche a riscoprire la passione dei suoi genitori per il riciclaggio dei rifiuti, passione poi trasmessa anche all’autore.
Ugo Cornia è uno scrittore nato a Modena nel 1965 che, nella nota biografica che lo riguarda, non vuole far sapere altro di sé come scrittore; ma che è invece prodigo di sé come personaggio dei suoi libri autobiografici; libri che hanno avuto una buona accoglienza da parte sia della critica che dei lettori. In questo articolo commentiamo un solo capitolo – “Sulla passione del riciclare” – tratto da un suo libro, non si sa se definirlo romanzo o mèmoire, intitolato Sulla felicità a oltranza (Sellerio, 1999 e 2000). Il libro è il racconto di come l’autore – o meglio, un io narrante che, attraverso uno stile semplice e volutamente ai confini dell’ingenuità – elabora, attraverso i ricordi, il lutto per le morti, avvenute a poca distanza una dall’altra, di una zia, della madre e del padre: tre figure a cui si sentiva legato da sentimenti fortissimi e la cui scomparsa aveva lasciato in lui un vuoto a tutta prima incolmabile.
L’exergo del libro ci introduce al racconto e alla sua filosofia, che ritroveremo espressa alla fine del capitolo che abbiamo preso in considerazione: “Questa è la cronaca abbastanza fedele di alcuni anni molto faticosi ma belli che a un certo punto mi sono capitati. L’unica cosa che si può dire è che le cose capitano e noi dobbiamo lasciarle capitare. Ma queste cose che capitano hanno la virtù principale di sfracellarci la testa”.
La passione del riciclare, di cui parla il capitolo di cui ci occupiamo, è un’attitudine che dominava completamente la vita tanto della madre che del padre dell’autore, e che i suoi genitori gli hanno trasmesso. Ma era una passione che, pur tenendo uniti e impregnando di sé la vita dei genitori, nasceva da motivazioni diverse e quasi contrapposte e si manifestava e veniva vissuta in maniera assai differente da padre e madre.
“Mio padre, – racconta l’autore – se il mondo fosse andato diversamente e se il suo destino avesse imboccato altre strade, sarebbe potuto diventare uno dei più importanti rottamai della terra. Infatti, tutte le volte che per un caso o per un altro doveva andare da un rottamaio a cercare un pezzo di automobile o delle altre cose, tornava a casa con la faccia di uno che abbia passeggiato per due ore nel paradiso terrestre”.
I ricordi di questa attività frenetica si accumulano nella mente dell’autore fin dai primi anni di età: “Mi ricordo che già quando ero molto piccolo, avrò avuto cinque o sei anni al massimo, spesso al pomeriggio andavamo tutti a Torre Maina dove sul torrente Tiepido c’era una fabbrica di materiali refrattari e di mattoni, e stavamo per delle ore a cercare tra gli scarti di produzione quei mattoni strani, usciti male dalla fabbrica, che fossero belli da conservare perché delle volte sembravano grattacieli o caseggiati deformati dalla guerra atomica”.
Si tratta di una passione antica che, secondo l’autore, risale molto indietro nel tempo: “Mio padre ha sempre avuto una passione per questo cercare e questo trovare di straforo, gli è sempre cascata addosso dell’euforia quando trovava della roba, e anche se tra di noi non ne abbiamo mai parlato e non mi ha mai fatto dei racconti specifici al riguardo, secondo me fin da giovane, vagabondando a piedi o in bicicletta, mio padre, se trovava qualcosa che gli piacesse in un campo o in uno scatolone sotto un portico, se lo portava a casa e da sempre per chi va a zonzo, una delle cose più belle e che più incuriosisce, mentre si gira, è trovare per terra delle cose perse o buttate via da qualcuno.”
Inizialmente le motivazioni che spingono il padre a riciclare sono soprattutto di carattere artistico ed estetico: “Quando mio padre arrivava col suo bel mattone in mano tutte le volte, subito, mia madre diceva che nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe potuto mai credere alla sua contentezza per aver sposato uno così pieno di gusto per le belle cose, tanto da scovarne delle carriolate dove meno si poteva immaginare”.
Poi, gradualmente, il senso pratico ha prevalso, ma senza affievolire la passione per il riciclaggio: “Ma negli anni, pian piano, la passione di mio padre si è spostata dal rottame artistico ai rottami utili, pur continuando lui a trovare qua e là dei pezzi unici decisamente degni di venire usati come soprammobili”.
Tutte diverse le motivazioni della madre: “Invece a mia madre, molto più semplicemente, è sempre dispiaciuto moltissimo che venga buttata via della roba che è ancora utilizzabile. O addirittura bella, anche se non è più di moda. Le è sempre dispiaciuto che di fianco a casa ci siano animali che muoiono di fame e nello stesso luogo e istante delle tonnellate di avanzi che vanno a finire nella spazzatura. Per lei il recupero più che una passione è sempre stato sentito come un dovere, un compito a cui tutti devono tenere dietro perché fino ad oggi, nonostante le tecnologie meravigliose di cui si parla continuamente, ogni pezzo di legno prima era un albero vivo: è per questo fondamentalmente che buttare via una seggiola buona è un’azione da stupidi in quanto gli alberi sono belli, e poi per comprare migliaia di seggiole o cose simili, che vanno cambiate continuamente, tutti sono costretti a lavorare come dei matti”.
Logico che questa differenza di vedute porti a esiti differenti: “Questa tendenza di mio padre quando non appariva apertamente covava in silenzio sotto la cenere, e poi di colpo emergeva. In questi ultimi sei o sette anni, quando d’estate eravamo su in montagna, mio padre andava ogni tanto da un rottamaio di nome Placido, che secondo lui era una persona altamente spirituale e profondamente religiosa. Tra di loro si davano tutti e due del lei in un modo veramente pieno di rispetto e di stima reciproca”.
Vediamo invece il comportamento della madre: “Devo dire che è successo spesso che anche mia madre tornasse da lavorare e entrasse in casa con in mano una seggiola trovata di fianco ai bidoni dell’immondizia, perché guardassimo se era buona o no, oppure che dicesse che mentre passava in macchina con una sua collega in via tal dei tali avevano visto una credenza o qualcos’altro che secondo loro era bello, e che secondo loro valeva proprio la pena che andassimo a vedere con i nostri occhi per recuperarli. Allora io e mio padre andavamo a vedere queste cose e spesso mio padre andava in bestia e diceva che erano mobili veramente brutti e fatti di un legno veramente schifoso che non valevano due lire, e che mia madre era scema, e quando rientravamo in casa le diceva che la prossima volta, se proprio voleva, ci andava lei a prendersi le sue schifezze”.
Questi comportamenti lasciano comunque una traccia indelebile non solo nell’anima dell’autore e della sorella, che li vivono direttamente fin da bambini, ma anche e soprattutto nell’accumulo di oggetti riciclati o da riciclare di cui è piena la casa di montagna in cui i ragazzi ritornano dopo la morte dei genitori: “A queste cose uno, cioè io o mia sorella, anche se comunque ci pensa spesso, ci pensa in modo più intenso quando entra in garage e trova tre o quattro mobili e delle assi di legno sistemate in ordine, poi va in montagna e vede che grazie ad alcuni anni di recuperi svariati, la stalla è piena di frigoriferi e anche di banchi di scuola che un ente buttava via, mentre nel fienile trova un centinaio di belle ante di finestre dell’inizio del novecento che sarebbero dovute finire anche quelle al macero, e che mio padre portava in montagna tutti i sabati, e mentre entravamo lì a sistemare queste finestre, io mandavo di continuo a mio padre delle maledizioni, e mio padre diceva tutte le volte «Dio canta! Ades al fnestri par feres la cà agh’i avam, basta trovare dei mattoni. Ma anche col vetro siamo a posto per degli anni”.
I ricordi si avviano così alla loro conclusione: “Devo dire che in quel momento, dal rottamaio, m’è partito un film in testa che mi ha fatto anche piacere, perché mio padre che sposta delle lavatrici tirandogli dei calci e degli improperi me lo vedo proprio, anzi, come si suol dire, mi balza davanti agli occhi, e vedo benissimo anche mio padre che va da mia madre con un’asse di legno, gliela fa vedere e dice “Guarda che asse di sorbolo, è bestiale, di as acsé adesa i velen di capitel, ag volen dal pianti ed zeint an”.
“E’ già un po’ di tempo – continua l’autore – che quando vado in certi poni partono questi film nella scatola cranica, e in quel momento bisogna che stia lì e me li guardi. Ma forse questa cosa mi è sempre successa”.
La conclusione ritorna sulle ragioni che lo hanno spinto a scrivere questo libro: “Ma la vita è proprio incredibile”.
“Un bel momento uno si mette a pensare che vuole continuare a star qui, per il semplice fatto che è già qui e tanto vale starci, e pensa che forse deve abituarsi a digerire anche il cosiddetto peggio. O comunque che uno si tiene volentieri tutto quel che succede semplicemente perché succede e basta, così s’adatta alla vita solitaria che delle volte è un po’ noiosa. Allora quella persona, cioè sempre io, si mette a vedere se nella vita solitaria, eventualmente, ci sono anche dei guadagni, e così si mette a pensare «be’, almeno non devo andare più a fare i controlli del bidone della spazzatura per tenere calma la mamma ». Poi, mentre vai a spasso per i fatti tuoi, va sempre a finire che almeno una volta al mese, in un posto o in un altro, ti vedi un’altra seggiola, te la guardi per un po’, e va anche a finire che ti dici che piuttosto che andare a prenderla crepi. Però poi ti dici che non è mica brutta come seggiola. E prima o poi una seggiola o qualcos’altro lo recuperi, perché ilvivere è fatto così”.
Guido Viale